Insolito film per Scorsese, ma non per questo non bello e riuscito. Hugo Cabret è un film multi-sfaccettato, in bilico perfetto tra sceneggiatura poco banale e dialoghi melensi e dal gusto palesemente metalinguistico. Perché con abile maestria, Martin Scorsese ci parla dell’arte del raccontare i sogni, dell’illusione, della magia focalizzandosi sul mezzo del cinema, al quale il film è un lungo ed emozionante tributo. Hugo Cabret è un fanciullo dickensiano, il protagonista rappresentativo di quella letteratura dell’ottocento piena di avventura, capace di incidere con forza nell’immaginario collettivo e che traghetterà l’arte di narrare al mezzo cinematografico.
La storia di Hugo è però coprotagonista della rete di eventi e situazioni tese a sottolineare l’importanza del mondo fatto di celluloide attraverso la capacità di creare e sognare: citazioni a piene mani prese dai primi lungometraggi e l’importanza di Méliés, un ottimo Ben Kingsley, come il primo ad aver capito che con ingegno e passione sul grande schermo potevano essere raccontante storie fatte di fantasia e stupore, proprio come un illusionista opera i propri numeri di magia.
E secondo me non è un caso che due dei dieci film candidati all’oscar (Hugo Cabret e The Artist) riflettano proprio sull’importanza del cinema delle origini, quello capace di emozionarti senza suoni, con espressioni o scenografie buffe ma pregne di una fattura artigianale e artistica allo stesso tempo, tale da essere molto più stupefacente dei 3D moderni.
Il cinema forse sta facendo il punto della situazione su sé stesso e ha bisogno di comprendersi, studiarsi e esaminare la propria capacità di farci sognare quelle avventure che, forsennatamente, cerca la compagna di Hugo. La fusione tra tecniche 3D e le immagini dei film di Méliés si incontrano generando un sogno perfetto e incantato, con pochi punti deboli (più che altro dettati dai dialoghi volutamente buonisti e zuccherosi).
Cosa mi porto di questo film: il lungo piano sequenza iniziale, le scenografie supefacenti, l’amore per Méliés e tutti i suoi film visti sul grande schermo e in 3D, lo sguardo malinconico dell’automa, Ben Kingsley, il sogno sulla locomotiva e la comparsata di quel bonazzo di Jude Law. Ah e poi il tempo, grande protagonista: Hugo vive negli interstizi dei numerosi orologi che popolano la stazione di Parigi, e tra le lancette osserva lo scorrere degli eventi di cui non fa parte, proprio come se fosse al cinema a guardare un film.
Di cosa avrei fatto a meno: i dialoghi troppo melensi e i tempi lunghi. I personaggi di contorno, confusionari, troppo deboli per essere funzionali alla trama troppo poco simpatici per essere godibili macchiette.
A questo punto non saprei davvero se tifare per The Artist o per Hugo Cabret, come miglior film all’oscar. Una cosa è certa, chiunque vinca, è secondo me meritatissimo.