8 gennaio 2013 di Vincenzo D'Aurelio
piove a quel biondo dio
Nel 1976 Adrienne Rich, poetessa e saggista americana morta nello scorso marzo all’età di 82 anni, scrisse che «negli interstizi della lingua si nascondono i significativi segreti della cultura» (Nato di Donna, ed. ital. Garzanti, 1996) e ciò a significare che nella lingua di un popolo sono individuabili gli elementi costitutivi della sua stessa cultura. Nel nostro dialetto, ad esempio, molti termini provengono principalmente dalla lingua osca, greca e latina e ciò a testimonianza di quelle che furono le interazioni culturali del Salento con i popoli che, in diverse epoche, dominarono questa terra.
L’espressione chiove a quel biondo dio, ad esempio, pronunciata per indicare una pioggia tanto abbondante quanto pericolosa, rientra prepotentemente nel nostro retaggio culturale. Letteralmente questa frase sembra una specie di blanda imprecazione contro il biondo Bambino Gesù ma, in realtà, il racconto evangelico non narra alcun evento che possa mettere in luce una relazione tra il biondo Bambinello e la pioggia abbondante. È evidente, allora, che il diffuso modo di dire sia stato adottato da una tradizione cultuale certamente non cristiana. Gli antichi romani, difatti, assegnarono l’epiteto di “biondo dio” al nume Tiberino, una divinità della natura, il quale, secondo il racconto mitologico, dimorava nelle acque del fiume Tevere che, appunto, era detto Tiberis. Al culto del dio fluviale, già prima della fondazione di Roma (753 a.C.), erano legati alcuni riti volti a placare la sua ira ovvero la furia distruttrice delle acque del fiume e le sue consequenziali piene. Le cronache sono ricche di episodi tragici legati alle frequenti piene del Tevere e alle sue devastanti inondazioni, come quella del 1598 che portò il livello dell’acqua a 19,55 metri, tanto da lasciare segni indelebili nella memoria del popolo romano. Quest’abbondanza di acqua, accresciuta dalle piogge consistenti e dalla sua impetuosità, contribuì, quindi, a formare nell’immaginario collettivo quel paragone tra la furia del Tevere, o del dio Tiberino, e la furia pluviale. In questo senso, allora, l’intensità dell’acqua piovana e la pericolosità di quelle fluviali entrano in perfetta relazione con l’identità furiosa di quel “biondo dio” che ricorda il “nostro” modo di dire. Tuttavia, l’immagine del dio Tiberino che restituisce la mitologia non è quella di una divinità bionda perché, tale attributo, è riferito al colore delle acque del Tevere la cui chiarezza è rintracciabile nell’etimologia stessa della parola Albula (dal lat. albus = bianco) ovvero nel nome più antico del fiume. L’appellativo biondo, invece, fu dato al Tevere dai poeti del tempo perché le sue acque, mischiandosi con la sabbia, divenivano flavae ossia gialle e, per derivazione, bionde. Il poeta Virgilio, difatti, nel I secolo a.C. scrisse che Enea, giunto con le sue navi sulle coste laziali, vide un bosco sacro e «nel mezzo, il Tevere, con amena corrente, a rapidi mulinelli, biondo di molta sabbia, prorompe in mare» (Eneide VII, 30-32).
Il Tevere in piena con le sue acque sabbiose
La correlazione esistente, dunque, tra la pericolosità di una pioggia copiosa e insistente con l’abbondanza delle bionde e tempestose acque del Tevere nel quale, inoltre, si incarna una divinità fluviale, determinò l’origine del detto “piove a quel biondo dio” in cui il riferimento cronologico precede di gran lunga i secoli della cristianizzazione del Salento.
I tratti della nostra storia, pertanto, sono riscontrabili anche nella semplicità del nostro parlare che, se in certi casi può apparire semanticamente illogico, in realtà è, invece, un tratto saliente della nostra stessa cultura alla cui base esiste un modo di dire contenente una logica ben precisa.