Ho sempre provato un grande pudore nel parlare di questo libro, nel coniugare le mie impressioni a quelle che nascevano da quelle pagine. Una storia apparentemente semplice. Un uomo che ha perso tutto (nel lavoro, negli affetti) decide di compiere un viaggio. Un viaggio attraverso le strade meno battute degli Stati Uniti. Attraverso quelle vie che non sono neanche lontanamente riconducibili all'immagine che la cultura americana (ancora una volta americana per statunitense, ancora una volta la parte per il tutto, ancora una volta l'ostensione di quella infinita potenza che gli Usa hanno nel raccontarsi e nel narrarsi come paradigma del mondo) riflette di se stessa e del proprio paese. Nemmeno Nashville, di Altman, si era così avvicinata a raccontare la parte sconosciuta e profonda dell'impero.
Least Heat-Moon descrive un viaggio, una serie di ritratti, una serie di dialoghi che culminano nell'incontro con uno studente universitario di origini nativo-americane (come nativo-americano è lo stesso autore del libro, e ne fa fede il cognome) che gli dimostra, nel richiamare gli insegnamenti del suo popolo, come ogni viaggio sia destinato a ritornare al suo punto di partenza. Ogni esplorazione, di una terra sconosciuta così come della nostra anima (terra altrettanto sconosciuta), ci porta necessariamente all'origine di quella esplorazione.
Non esiste niente di nuovo se non la continua ricerca e scoperta di se stessi che, dopo tanto peregrinare, ci porterà di fronte alla nostra stessa anima.
Tanto tempo è passato da quei giorni in cui lessi quelle pagine. Oggi scopro che su tumblr (vero e proprio luogo della più vivace e viva cultura pop) da qualche tempo appaiono citazioni tratte da Strade blu. E nel loro rivivere, nel loro perpetuarsi, fanno sì che quel lungo viaggio alla ricerca del punto di partenza, alla ricerca di noi stessi, riprenda vigore e continui.
Un libro.
Strade blu, di William Least Heat-Moon (Einaudi).