Quando nel '46 si scelse che l'Italia sarebbe stata una Repubblica, innescando di fatto la transizione costituente, lo scenario politico non era meno complicato di quello odierno. L'esarchia dei CNL perdeva compattezza dopo le prime elezioni a suffragio veramente universale e gli italiani davano il 70% dei voti complessivamente a comunisti, socialisti e democristiani. Quello che sarebbe stato definito da un famoso politologo come Sartori il "multipartitismo esasperato all'italiana" aveva già assunto pienamente tutti i suoi connotati. Tolti i tre partiti più grandi, le forze politiche polverizzavano l'arco costituzionale.
Per fare una Costituzione che durasse nel tempo bisognava allora mettere d'accordo anime e storie politiche profondamente diverse. E così si fece una mossa molto brillante: separare l'ordinaria amministrazione dall'importante compito di scrivere la Carta fondamentale da zero. I Costituenti si "rinchiusero" per due anni nei palazzi e discettarono di altissime questioni giuridiche e istituzionali con l'obiettivo di cucire al Paese martoriato dalla guerra un vestito di democrazia, di stabilità, di garanzia dell'ordinamento pluralistico.
Quello che ne risultò è un documento che ha avuto l'ardore di resistere ai più profondi smottamenti, per oltre sessant'anni. Frutto di un sorprendente compromesso, il testo della Costituzione italiana non fu, tuttavia, mai risparmiato dalle critiche. L'insigne Calamandrei, per esempio, riteneva che la prima parte, sui diritti civili e sociali, contenesse una "rivoluzione promessa", mentre la seconda parte, che organizzava i poteri dello Stato, racchiudesse una "rivoluzione mancata" perché non permetteva ai predetti poteri di agire in modo efficace. Una Costituzione programmatica, ma non pragmatica.
Oggi, come avvenne già in occasione delle tre Bicamerali rimaste sulla carta, si sta tentando ancora una volta di cambiare le regole fondamentali della nostra claudicante forma di governo, nell'ottica proprio di quella rivoluzione. Si vorrebbe un'azione di governo stabile ed efficace, un maggiore risparmio di spesa pubblica, ma si perde in democrazia, vista la proposta di un Senato non più elettivo, e si è accantonata la grande idea di un Presidente eletto direttamente dagli italiani.
Non ci sono i 75 saggi, dotti giuristi, sapienti statisti, emeriti professori, a dibattere su cosa è meglio per il Paese in un orizzonte di lungo periodo. C'è, invece, una classe politica nella quale accanto a personalità di tutto rispetto figurano troppi corrotti, nominati, indagati o incompetenti, tutti chiamati al compito ingrato di decidere di loro stessi. Ci sono leader che utilizzano pezzi di Costituzione in cambio di leggi elettorali o riformette. Il gioco sta tutto nel tornaconto dei partiti, gli italiani sono messi ancora una volta in disparte. E così si comprende, ma non si giustifica, il ricatto delle questioni di fiducia o dei vari maxiemendamenti, o il fatto che il disegno di legge costituzionale, in luogo di provenire dall'organo elettivo, è presentato dal Governo. Questo Parlamento ha perso anche la prerogativa di "pensare" le proprie leggi costituzionali.
Sto cominciando a farmi l'idea che questi partiti non si muovano nell'ottica della leale collaborazione, non abbiano a cuore la ricostruzione finanziaria ed etica delle istituzioni. Ma vadano avanti per proclami, quasi fossero costantemente in campagna elettorale. Non hanno più un programma, nessuno sa quali siano i loro intendimenti, ma sostengono questa o quell'altra idea in base agli orientamenti aleatori dei sondaggi. La questione etica, infine, ha innegabilmente inflitto un duro colpo alla credibilità della nostra classe politica.
Con queste premesse, allora, forse sarebbe il caso di rifletterci seriamente sull'eventualità di farci lasciare in eredità da queste persone una profonda riforma costituzionale. Siamo davvero sicuri che per cambiare il paese occorra cambiare l'assetto dei poteri oggi, per poi pentircene domani? Perché non cominciare da riforme che possano dare frutti subito, come quella sulla giustizia o sul rilancio della competitività delle nostre imprese? E, infine, siamo sicuri che lo strumento legislativo possa essere ancora utile se, nonostante le buone intenzioni, negli anni non si è mai riuscita a cambiare la nostra "mentalità"?
YC