"Io voglio che torni questo giorno qui".
"Questo giorno qui ormai è passato", disse la Ernestina, "domani ne viene un altro".
Mi rivoltai come un forsennato, intravedevo che c'era di mezzo una specie di regola intollerabile...
Ma chi lo direbbe mai che questo libro ha così tanta storia dietro, anzi, che è venuto fuori lo stesso anno che sono venuto io al mondo - tanto per confessare che non sono più un ragazzino?
Era un'altra Italia, allora. Ed era un'altra Italia quella che l'Italia di allora stava rapidamente seppellendo. Le lucciole non erano ancora sparite, per dirla con Pasolini, e per fortuna non sarebbero sparite. Però era l'epoca in cui le autostrade cominciavano ad allungarsi da un angolo all'altro dell'Italia e la felicità era una Fiat più un frigorifero a casa. Iniziava l'epoca della televisione, i dialetti sparivano. Soprattutto era cominciata la grande fuga dalle campagne, mica solo per una questione economica. la città era la città: e fare il contadino era qualcosa di cui vergognarsi.
Ecco, erano questi gli anni. Ed ecco che spunta fuori un libro come Libera nos a malo di Luigi Meneghello, autore vicentino che avrebbe trascorso molta della sua vita in Inghilterra, facendone una seconda patria, ma che già allora aveva fame di radici.
Un libro così, a sorpresa. Che racconta di un piccolo paese tra gli anni Trenta e il dopoguerra, con gli occhi sognanti di un bambino ma anche di un adulto che vuole tenersi stretto il bambino che era. Che impasta il suo italiano di dialetto. Che rifugge alle sperimentazioni ardite di tanta letteratura per raccontare che cosa eravamo e che cosa abbiamo perso. Che fa di un piccolo paese - il Malo del titolo - un microcosmo di storie e possibilità. Che usa la farina del distacco ironico - e a volte anche di un irresistibile umorismo - ma poi inforna tutto con l'ingrediente della malinconia.
Ciò che eravamo. Ciò che abbiamo perso. Ciò che forse ora ci viene più facile rimpiangere.