Il minuscolo aereo è scosso da grossi tremori, come se avesse la febbre a quaranta. Fuori dal finestrino c’è il diluvio universale. Le scosse sono così intense che non riesco a leggere il mio librone sulla storia della colonizzazione africana e mi concentro ad ascoltare le urla di dolore dell’aereo, che si placano solo quando le ruote toccano l’asfalto bagnato della pista di Manzini, Swaziland, una delle ultime monarchie assolute al mondo.
L’aeroporto è così piccolo da sembrare un giocattolo. Invece dei doganieri ci si aspetta di incontrare degli omini Playmobil. Devo chiedere dov’è l’uscita perché mi sembra strano che la porta sia grande come quella di casa mia. In compenso le formalità durano qualche secondo e in un baleno mi ritrovo sotto la pioggia locale.
Mi aspettavo un posto semi-desertico e invece mi ritrovo in una fotocopia della Svizzera. Tutto è verde e ci sono anche molte mucche. Per di più tutto sembra ordinato e pulito, lontano anni luce dallo stereotipo africano. L’unica cosa che sapevo dello Swaziland prima di metterci piede era che ogni anno c’è un’enorme festa in cui tutte le vergini del paese si mostrano al re perché le prenda come moglie. Visto che il re è asceso al trono nel 1986 è da parecchi anni che la solitudine non è un problema per lui. Sicuramente un sistema ingegnoso contro gli intempestivi mal di testa femminili.
In preda ad evidenti stereotipi eurocentrici, mi aspettavo una popolazione di gente vestita da pelli di leopardo che balla al ritmo del tamtam. Invece mi trovo a viaggiare tra le colline coperte di campi di canna da zucchero e ananas su strade che sono il sogno di ogni motociclista: perfette e sinuose. In ogni ufficio pubblico o albergo c’è la foto di un uomo con una corona di peli d’animale e piume d’uccello. E’ sua maestà il re, l’uomo più invidiato dagli uomini (e ancora piuttosto adorato dalla maggioranza dei suoi sudditi, almeno quelli che hanno in odio i partiti).