Dispositivi indossabili è una definizione che detesto perché, una volta di più, esemplifica la cattiva abitudine di incasellare le cose, in questo caso aria fritta, per potersele rivendere a trance nel mercato rionale globale.
Non che prima non esistesse nulla, ma il braccialetto di Nike per i patiti del jogging, per esempio, è un prodotto troppo di nicchia per imporsi davvero come la prossima grande rivoluzione tecnologica in grado di incidere significativamente nella vita delle persone.
Certo, ci vuole una buona dose di coraggio per indossare un paio di stecche con appeso un display a sbalzo, pomposamente definito prisma, che imitano un paio di occhiali, senza peraltro coglierne l’essenza e quindi la ragion d’essere (chissà che la partnership con Luxottica non sortisca il necessario affinamento), ma l’impatto è stato comunque così dirompente che non esiste – oggi – analista finanziario che non si cimenti nella divinazione del futuro prossimo – indossabile – in grado di ingrassare ancora le casse, già grasse, di opulente multinazionali.
Se tuttavia, e nonostante l’entusiasmo degli early adopter, il tempo di decenti occhiali 2.0 ci sembra ancora relativamente lontano, quello dei cosiddetti smartwatch si sta rivelando un mercato curioso, con la startup Pebble che pare sia riuscita a piazzare circa 400.000 orologi, un risultato rilevante se paragonato anche ai numeri fatti registrare da Samsung con il suo Gear lanciato in pompa magna insieme a Note 3.
Per il momento, d’altro canto, gli aggeggi indossabili soffrono di una subalternità piuttosto marcata verso i telefoni cellulari, anzi, in molti casi, non sono altro che un surrogato di funzioni riprese di peso dagli odierni smartphone che ne ridimensionano le ambizioni e adombrano l’effettiva utilità.
In parole povere, le aziende sembrano accontentarsi di replicare il modello che funziona su nuove categorie di prodotto, dimostrando davvero miopia nei confronti delle loro stesse creazioni.
Ma in fondo, direte voi, a cosa può mai servire uno smartwatch se non a mostrare i messaggini del telefono nascosto in borsa perché, nel frattempo, è diventato enorme da gestire con le mani?
Intanto, potrebbe permetterci di dialogare con altri dispositivi in determinati contesti, via bluetooth o wi-fi con assoluta naturalezza.
Penso agli ospedali, per esempio.
Il trend del momento prevede per questi prodotti l’adozione di tecnologie biometriche che possano tenere traccia di certi parametri vitali, come già accade proprio per il Fuel Band di Nike.
Ora, non darei per scontato che alle aziende convenga informare proprio il cliente delle sue condizioni fisiche, (l’ipocondria di massa avrebbe un impatto devastante) ma potrebbe essere interessante conservarle nel dispositivo per esporle in chiaro ad un pronto soccorso, per esempio, o nello studio del proprio medico per una valutazione che sia sì più rapida, ma comunque sempre oggettiva e attendibile.
La tecnologia nascente dei beacons, tanto per dire, ben si presterebbe ad uno scambio di dati localizzato e bidirezionale, in contesti che non siano solo a scopo commerciale.
Integrare dei sensori giroscopici in un ipotetico smartwatch, poi, potrebbe produrre interessanti nuove modalità di interazione fra gli uomini e le macchine legate a semplici gesti del polso o del braccio, spingendo la domotica ancor più di quanto non abbiano fatto gli smartphone fino ad oggi.
Veicoli, elettrodomestici e televisori sarebbero effettivamente sotto il nostro pieno controllo tramite piccoli, naturali, gesti.
Android Wear in questo senso dimostra, ancora, l’impegno e l’interesse di Google per la materia, ma di concreto, a parte qualche rendering di Moto 360, lo smartwatch prototipo di Motorola, se ne sa ancora molto poco ed il modello non sembra essere differente da quello di uno smartphone da polso che permette l’interazione anche attraverso le dita grazie ad uno schermo touch, che mi convince a metà perché – in effetti – inutile su un display di pochissimi pollici, a meno che il trend, in caso di successo, non preveda una deriva verso quadranti enormi a colmare la piccolezza di certe idee.
Se la tecnologia sembra, comunque, essere sul pezzo (e mi stupirei del contrario) quello che continua a mancare è una visione che dia un senso ai prodotti, un collante e un alfabeto che li renda comprensibili e quindi utili.
Samsung insegna, proprio con Gear, che non è facile infondere un’anima alla propria mercanzia quando l’unico obiettivo resta quello di vomitarla sul mercato.
Nella fibrillazione che precede il botto (o la cilecca) Apple sembra restare, come sempre, alla finestra.
Forse timida in assenza di una guida carismatica che sappia immaginare il futuro, o magari solo in attesa del momento buono per svelare il proprio coniglio dal cilindro, spiazzando – di nuovo – le regole del mercato.
L’impressione è che siano indecisi e in ritardo rispetto alla concorrenza, ma i recenti contatti con esperti di orologeria svizzera potrebbero significare anche che a Cupertino cercano una soluzione più originale e magari più rispettosa dell’oggetto in sè, che ne esce piuttosto snaturato dall’approccio tecno-informatico finora adottato dai pionieri di questo nuovo mercato, evidentemente più a proprio agio con Cpu e display che non con ingranaggi e lancette.
Considerata anche la velocità con cui i maestri orologiai hanno declinato l’offerta, d’altronde, è piuttosto chiaro che non esiste nell’immediato futuro nessuna volontà di ibridare i due mondi, col rischio di venire fagocitati come è già accaduto in passato ad altri soggetti in altri settori.
Mai, come per loro, il tempo è davvero denaro.