Il posto giusto, di Simona Garbarini

Creato il 23 novembre 2015 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Il campo della Falchera è qualcosa di incancellabile. Fa dimenticare qualsiasi sensazione di bellezza estetica che si può mai aver provato nella vita.

È come se fosse ancora di fronte a me.

A due passi dalla tangenziale, fracasso di camion più forte dei fischi dell’arbitro, macchine che ti sfrecciano addosso spiandoti ai centotrenta all’ora. Poco oltre, la discarica. Brutto, malmesso, quattro zolle d’erba ingiallita in una distesa di fango. Ventidue disgraziati che fanno fatica a dare una qualsivoglia direzione al pallone. Un cielo innaturalmente grigio che di tanto in tanto elargisce sprazzi di luce quasi divina. Deriva suburbana del calcio.

È qui che per la prima volta ho incontrato mio figlio.

Lo so, non si dovrebbe iniziare una recensione con l’incipit del romanzo, ma le primissime parole mi hanno trascinata in una storia a me del tutto estranea, in una città che non conosco affatto, ad ammirare una squadra che non è la mia, e mi ci hanno tenuta quasi a forza. Una storia che mi ha fatta scendere da un taxi sui bordi di un campo fangoso, a cercare un campione. Che mi ha fatta rabbrividire di umidità nelle ossa ed esultare per un gesto tecnico che non ho visto. Che mi ha fatto aspettare un ritorno e bere un bicchiere e due e tre per annegare l’ansia.

Quanto lontana da me –meridionale trapiantata al centro- può essere Torino, quanto ignota, altrettanto questa città si è fatta strada in me come paesaggio amato durante la lettura de Il Posto Giusto di Simona Garbarini (finalista Premio Calvino 2012). E non la Torino elegante e colta dei caffè e del Salone del Libro, ma la periferia nord dove, su uno scalcagnato campetto di calcio, Guido vede Toni per la prima volta e decide poco dopo, e nonostante le difficoltà, di farne suo figlio attraverso l’affido. Toni è un ragazzo difficile, forse disadattato, di certo vittima di violenze, affidato ai Servizi Sociali, ma una promessa del calcio. E Toni può rappresentare un tentativo di redenzione per l’uomo che ha più che sfiorato la rovina sociale a causa dell’alcol, e arranca in una vita senza scopo e senza interessi, una vita insapore mascherata da benessere. Da subito, Guido crede di riconoscere in Toni un suo simile, un reietto della società, nobilitato però dal genio del calcio. E decide di salvarlo, e di salvarsi, gli si aggrappa, mentre pensa di essere lui a portarlo a galla.

Era una gioia vedere mio figlio tra quei sedici eletti, a un passo dal professionismo, a due passi dalla gloria. …

Gli piacevano le progressioni potenti, ma anche orchestrare il gioco senza darlo a vedere, chiudendo a centrocampo in caso di necessità.

Tutti pensavamo che il bello dovesse ancora incominciare.

Non desidera soltanto la salvezza di Toni, però: Guido vuole farne un campione, portarlo in alto, al successo. E seguendolo negli allenamenti, sorreggendolo e spingendolo, nell’attesa sui bordi dei campi, col freddo e col caldo, Guido inizia ad amare il suo quasi-figlio ancor più che il futuro campione.

Ma l’amore, come il calcio, non si decide a tavolino: mentre Guido si impegna ad essere padre, Toni non ricambia, o non del tutto, o non sempre: Toni e il suo passato nero, Toni che, pur veleggiando nella carriera calcistica coi suoi piedi d’oro, affonda sotto le zavorre della paura, del tossico legame con il padre naturale, della sofferenza di vivere.

Il Grande Torino, 1948-49

Sulla copertina come sullo sfondo della vicenda brilla un profondo color granata, il colore di una maglia storica, di una squadra simbolo del calcio leggendario e persa per sempre a Superga: la storia di Guido e Toni, doppiando quella del Grande Torino (con le stesse iniziali, caso o volontà?), diviene anch’essa quella di una promessa di un grande futuro che rivive solo nel passato statico del racconto.


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