Il più sontuoso di tutto l'anno.
I santesi facevano a gara per superare o almeno uguagliare quello servito il gennaio precedente.
D'altronde, cosa non si sarebbe fatto per mostrare la devozione verso il Santo protettore degli animali e di tutto il mondo rurale?
Le immagini di Sant'Antonio abate, barba bianca e bastone con la campanella, affiancato dall'immancabile maialino e con dietro una preghiera da recitare, si trovavano in tutte le stalle del paese a sostenere i parti difficili delle mucche, a far crescere bene agnelli e capretti, a vegliare sull'asino, il mulo e gli animali da cortile, a seguire l'ingrassamento del 'ninetto' (il porco) vera sicurezza della dispensa.
La società di Sant'Antonio, a Vallo di Nera, era costituita da soli uomini, imbussolati in coppie dentro un contenitore da cui venivano estratti i santesi, anno per anno, durante la messa mattutina del 17 gennaio, dopo la benedizione del sale e degli animali, oppure tra una portata e l'altra del pranzo.
Spettava ai santesi sorteggiati l'onore di organizzare la festa e soprattutto di preparare il supremo pasto per i soci e gli invitati, che dovevano tornare a casi sazi e soddisfatti.
La comunità disponeva di apposite stoviglie, pentole, tovaglie e attrezzi acquistati di anno in anno con i proventi delle questue. Il menù poteva variare, ma in genere le modifiche non si discostavano troppo da quelli che erano i punti di riferimento.
Antipasto a base di crostini con burro e alici, con patè di fegatini, con tartufo nero invernale, fette di prosciutto, olive e sottaceti; stracciatella in brodo, 'strengozze' nere di tartufo o lasagne con il ragù, cotolette fritte di agnello con contorno di carciofi fritti anch'essi, arrosto misto di agnello e pollo cotto nel forno infuocato con le fascine e con il legno di quercia; insalata, vino in abbondanza, zuppa inglese, mandarini e caffè.
Tutto preparato a mano coi prodotti di casa, messi da parte per l'occasione.
Per prima cosa si lavorava la pasta all'uovo, a mano, allineando le spianatoie sui tavoli di legno; il sabato si lavava l'insalata nell'acqua gelida della fonte, si accendeva il fuoco nella stretta cucina del salone, si spalmavano i crostini mentre la cuoca Loreta, che aiutava i familiari dei santesi, spediva alcune ragazze a prendere in prestito di casa in casa questo o quell'attrezzo. Nelle teglie di ferro i pezzi di carne venivano messi a insaporire per una notte con rosmarino, olio, sale, pepe, limone e un leggero battuto di lardo. Si apparecchiava per l'indomani e poi si consumava il pasto serale a base di coratella di agnello cotta con fettine sottili di cipolla.
A mezzogiorno e mezzo della domenica, tutte le ragazze del paese reclutate per l'occasione erano pronte a servire gli uomini, con garbo e precisione, al pari di un ballo per le debuttanti. Portare a tavola per il pranzo di Sant'Antonio significava passare dalla fanciullezza all'adolescenza.
La sera gli avanzi del pranzo venivano offerti in cena agli uomini del paese che non facevano parte della Società di santesi; più tardi nella sala si spostavano panche, sedie e tavoli e si dava ufficialmente inizio al Carnevale con valzer, tanghi, mazurche e quadriglie.
Bastava una fisarmonica e il 'festino' di Sant'Antonio poteva avere luogo.
Oggi molte cose sono cambiate ma l'usanza della festa resiste ancora, insieme alla devozione, in tutti i paesi della Valnerina.
Gli animali non sono tanti come un tempo, le ragazze non partecipano più al rito collettivo, i menù sono diventati 'moderni', il vino non si versa da fiaschi e boccioni ma da snelle bottiglie con l'etichetta e l'inizio del Carnevale non interessa più a nessuno, tanto si balla tutto l'anno.
Però restano l'amicizia, la convivialità e il ricordi dei tanti che sono passati prima di noi.
Al centro Loreta, la cuoca di Sant'Antonio