Il successo tra i contemporanei non è per niente indicativo del valore artistico di un prodotto. L’arte, come la cultura, si deve affermare nel tempo, deve tramandare di generazione in generazione la conoscenza, essere testimonianza viva e vera di un mondo perduto. Quando riesce a comunicare a distanza di tempo, l’arte è autentica. Il resto, tutto ciò che non riesce ad andare oltre a un orizzonte generazionale, rimane nel recinto dell’intrattenimento, di qualcosa che viene fatta per la soddisfazione dell’ego, non per trascenderlo. Non c’è nulla di sbagliato in questo e chi vuole ha tutti i diritti di chiamarla arte; e chi non vuole, ha tutti i diritti di chiamarlo surrogato di arte, me compreso. Ma non è una questione di puzza al naso: quando vedo o ascolto un prodotto che si vorrebbe artistico infarcito di cliché, di luoghi comuni, di piacionerie, di pathos ridondante, non posso far altro che sbadigliare, a prescindere dal fatto che possa riconoscere agli autori abilità e talento.
Non posso che rivolgere un invito a tutti quelli che, come me, si ritrovano con le fauci spalancate dalla noia di fronte a queste belle confezioni, studiate a tavolino e sostenute dalle corazzate del marketing: non ci polemizzate, ignorateli, siate postumi, che i posteri non sapranno mai chi sono stati, questi miracolati dei mass-media.
Il presente è sempre stato il regno dei mediocri. Il nostro dramma è che questi sono i tempi dell’eterno presente.