Il Prigionero del Cielo, terzo capitolo di quella che dovrebbe essere la quadrilogia di Carlos Ruiz Zafón.

Creato il 30 novembre 2012 da Rstp

Nel dicembre del 1957 un lungo inverno di cenere e ombra avvolge Barcellona e i suoi vicoli oscuri. La città sta ancora cercando di uscire dalla miseria del dopoguerra, e solo per i bambini, e per coloro che hanno imparato a dimenticare, il Natale conserva intatta la sua atmosfera magica, carica di speranza.

Daniel Sempere - il memorabile protagonista di "L'ombra del vento" è ormai un uomo sposato e dirige la libreria di famiglia assieme al padre e al fedele Fermín con cui ha stretto una solida amicizia.

Una mattina, entra in libreria uno sconosciuto, un uomo torvo, zoppo e privo di una mano, che compra un'edizione di pregio di "Il conte di Montecristo" pagandola il triplo del suo valore, ma restituendola immediatamente a Daniel perché la consegni, con una dedica inquietante, a Fermín. Si aprono così le porte del passato e antichi fantasmi tornano a sconvolgere il presente attraverso i ricordi di Fermín.

Per conoscere una dolorosa verità che finora gli è stata tenuta nascosta, Daniel deve addentrarsi in un'epoca maledetta, nelle viscere delle prigioni del Montjuic, e scoprire quale patto subdolo legava David Martín - il narratore di "Il gioco dell'angelo" - al suo carceriere, Mauricio Valls, un uomo infido che incarna il peggio del regime franchista.

Dopo "L'ombra del vento" e "Il gioco dell'angelo" Carlos Ruiz Zafón ci regala il terzo capitolo di quella che dovrebbe essere la sua quadrilogia. Ritornano i personaggi che hanno fatto conoscere l'autore spagnolo al grande pubblico e ritorna anche quel Cimitero dei Libri Dimenticati che tanto ha appassionato i lettori di tutti il mondo.


Barcellona, dicembre 1957

Quell'anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto gior­ni plumbei e ammantati di brina. Una penombra azzurra­ta avvolgeva la città e la gente camminava in fretta coper­ta fino alle orecchie, disegnando con il fiato veli di vapore nell'aria gelida. Erano pochi coloro che in quei giorni si fer­mavano a guardare la vetrina di Sempere e Figli, e anco­ra meno quelli che si avventuravano a entrare per chiede­re di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita, poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria.

«Sento che oggi sarà il giorno giusto. Oggi cambierà la nostra sorte» proclamai sulle ali del primo caffè della gior­nata, puro ottimismo allo stato liquido.

Mio padre, che battagliava dalle otto di quella mattina f Con il registro della contabilità destreggiandosi abilmente [con gomma e matita, alzò gli occhi dal bancone e osservò la sfilata di clienti mancati che si perdevano dietro l'angolo.

«Il cielo ti ascolti, Daniel, perché di questo passo, se va male la campagna di Natale, a gennaio non avremo nemmeno i soldi per la bolletta della luce. Qualcosa dovremo fare. Fermìn ha avuto un'idea» dissi. «Secondo lui, è un magistrale per salvare la libreria dalla bancarotta.»

Lo vidi scomparire nel retrobottega e riemergerne equi­paggiato con la sua uniforme ufficiale per l'inverno: lo stes­so cappotto, la stessa sciarpa e lo stesso cappello che ricordavo fin da bambino. Bea diceva di sospettare che mio padre non comprasse vestiti dal 1942, e tutti gli indizi por­tavano a ritenere che mia moglie avesse ragione. Mentre si infilava i guanti, sorrideva vagamente e nei suoi occhi si percepiva quello scintillio quasi infantile che riuscivano a strappargli solo le grandi imprese.

«Ti lascio da solo per un po'» annunciò. «Esco a fare una commissione.»
«Posso chiederti dove stai andando?»
Mio padre mi fece l'occhiolino.
«È una sorpresa. Poi vedrai.»

Lo seguii fino alla porta e lo vidi partire a passo fermo in direzione della Puerta del Angel, una sagoma fra le tan­te nella marea grigia di passanti che navigava per un altro lungo inverno di cenere e d'ombra.

Remerò de Torres, bandiera vivente della resistenza civi­le contro la Santa Madre Chiesa, le banche e le buone abi­tudini in quella Spagna degli anni Cinquanta tutta messa e cinegiornali, manifestava una simile urgenza di sposar­si. Nel suo zelo prematrimoniale, era arrivato al punto di stringere amicizia con il nuovo parroco della chiesa di San­ta Ana, don Jacobo, un sacerdote di Burgos con idee aperte e modi da ex pugile, al quale aveva contagiato la sua smi­surata passione per il domino. Le domeniche dopo la mes­sa si battevano in storiche partite al Bar Admirall, e il sacer­dote rideva di gusto quando Fermìn gli domandava, tra un bicchiere e l'altro di liquore alle erbe di Montserrat, se sa­peva con certezza se le monache avessero le cosce e se, in caso le avessero, fossero tenere e mordicchiabili come lui sospettava fin dall'adolescenza.

"Lei riuscirà a farsi scomunicare" lo rimproverava mio padre. "Le suore non si guardano e non si toccano."
"Ma se il parroco è più vizioso di me..." protestava Fer­mìn. "Se non fosse per l'uniforme..."

Stavo ricordando quella discussione e canticchiando al suono della tromba del maestro Armstrong quando sentii il campanello sulla porta della libreria emettere il suo dol­ce tintinnio. Alzai lo sguardo aspettandomi di vedere mio padre ormai di ritorno dalla sua missione segreta o Fermìn pronto a montare per il turno pomeridiano.

«Buon giorno» disse dalla soglia una voce grave ed esangue.

Stagliato in controluce sulla porta, il suo profilo assomi­gliava a un tronco sferzato dal vento. Il visitatore indos­sava un vestito scuro dal taglio antiquato e disegnava una sagoma torva appoggiata a un bastone. Fece un passo in avanti, zoppicando visibilmente. Il chiarore della lampa­da sul bancone rivelò un volto segnato dal tempo. Il visi­tatore mi osservò per qualche istante, soppesandomi senza fretta. Il suo sguardo aveva qualcosa dell'uccello rapace, paziente e calcolatore.

«È lei il signor Sempere?»
«Io sono Daniel. Il signor Sempere è mio padre, ma in questo momento non c'è. Posso fare qualcosa per lei?»

Il visitatore ignorò la mia domanda e cominciò a vagare per la libreria esaminando tutto palmo a palmo con un in­teresse al limite dell'avidità. Il suo modo di zoppicare fa­ceva immaginare che le lesioni nascoste sotto quei vestiti fossero davvero gravi.

«Ricordi di guerra» disse lo sconosciuto, come se mi aves­se letto nel pensiero.

Seguii con lo sguardo la sua traiettoria di perlustrazione.

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