di Alfonso Nannariello
Non che le ragazze aspettassero paurose in casa la minaccia dell’invasore, di quello che sarebbe stato poi il marito.
Se s’erano forse fatte di lui l’idea di un nemico, erano pure cresciute col pensiero che sposarsi avrebbe significato per loro rimediare all’insicurezza di ogni giorno e del futuro. L’uomo che avrebbero sposato lo vedevano, perciò, come il loro personale salvatore.
Le ragazze lo sapevano. Lo avevano appreso dalle cose come andavano in famiglia.
I ruoli erano definiti. Da sposate avrebbero avuto autorità solo sui figli. I mariti anche su di loro. Alle suocere pure avrebbero dovuto sottostare, proprio come al figlio che avevano sposato.
Le figlie lo avevano saputo dalle madri. Con i mariti dovevano tenere una parola in meno. Quella non detta è sempre la migliore. Dalle madri avevano saputo pure che in determinati momenti potevano provare a salire sopra un basamento. Avrebbero potuto saggiare se fosse stato possibile il dominio sui mariti quando, incinte, dichiaravano una voglia.
La voglia era l’attributo più occulto e insidioso del loro gioco. Quasi una rivincita per quella mancanza di diritti, e per lo stupro subito.
E gli uomini, più si deformava loro il corpo, più dovevano garantire stabilità alla forma vulnerabile di quelli che sarebbero da lì a poco nati.
Di uno, invece, si diceva che lasciò la moglie talmente amareggiata che il suo cipiglio restò per tutta la vita impresso negli occhi strabici del figlio.
Chissà che fine fanno, nel corpo e nel cuore di una donna, le voglie inappagate. Chissà in quale grotta si mettono a covare la vendetta, ad annunciarla con mezze parole. Chissà, poi, il loro alfiere sopra quale vetta, sotto quale sole, srotola e sventola tutte le sue bandiere.