Siamo alla ventinovesima puntata della serie di articoli di Luca Moreno sulla storia di Firenze. Le immagini sono numerate in continuità con quelle del ventottesimo articolo.
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Il Principato degli Asburgo-Lorena
di Luca Moreno
Figura 84: Il Principe di Craon (da Wikipedia)
Quando nel 1737, ancora vivo Gian Gastone, giunse in Toscana Marc de Beauveau, Principe di Craon in qualità di Presidente del Consiglio di Reggenza, inviato del Granduca di Toscana, Francesco Stefano di Lorena (1708-1765) (rispettivamente in figura 84 e 85), seguito subito dopo dal Conte Emmanuel Nay di Richecourt, si capì subito che nulla di buono ne sarebbe venuto ai fiorentini. I primi atti istituzionali della nuova dinastia, pur nel rispetto formale delle Magistrature tradizionali, mostrarono chiaramente come l’autorità del nuovo Granduca fosse legittimata non dal consenso, ma nell’“indubitato ed incontestabile nostro jus e diritto di succedere in tutti ed in ciascheduno degli stati e feudi e loro appartenenze e dipendenze posseduti e possedute dal Serenissimo Gran Duca di Toscana Giovanni Gastone”.
Il Diploma dell’Imperatore d’Austria Carlo VI, suocero di Francesco Stefano e padre di Maria Teresa, futura Imperatrice, era già esso stesso un testo che introduceva non poche novità: vi si leggeva, infatti, che lo Stato fiorentino o “Stato vecchio” e lo Stato senese o “Stato nuovo”, allora governati come due Stati tra loro indipendenti, “debbono intendersi sotto il nome del Granducato di Toscana e così sempre per l’avvenire si nomineranno”. Questa affermazione si giustifica con il fatto che, durante il Principato mediceo, nonostante la conquista di Siena del 1555 per opera di Cosimo I, quest’ultimo garantì sempre una certa autonomia alla città, lasciandone la gestione ad un’autorità locale cui furono affiancati un Governatore e un Auditore generale, entrambi di nomina granducale; i territori della Repubblica senese assunsero così il nome di “Stato nuovo”, anche se Siena seguirà sempre i destini del Granducato.
Noti erano poi i giudizi che gli austriaci davano dello Stato che si apprestavano a governare e le linee di governo sulle quali intendevano muoversi: il Principe di Craon, a due giorni dalla presa ufficiale di possesso del Granducato, denunciava al Granduca che “i fiorentini erano molto attaccati alla forma del loro antico governo, che è per molti aspetti male impiantato”; e in quegli stessi giorni lo stesso Craon impediva che il Segretario del Senato, Carlo Ginori, recitasse, in occasione del giuramento solenne dei Senatori alla nuova dinastia, un discorso ricco di riferimenti ai privilegi del Senato e al passato regime mediceo. Drastico poi il giudizio che il Richecourt e il Craon formularono in un dispaccio del 10 settembre 1737, in cui si diceva che: “Il governo di questo paese è un caos quasi impossibile da sciogliere; è un miscuglio di aristocrazia, di democrazia e di monarchia. Sembra che ci si sia divertiti a confondere gli affari, in modo da non poterli mai vedere con chiarezza. Ogni entrata è amministrata da tre o quattro tribunali, che vi campano sopra; le uscite si pagano con lo stesso modo: non ce ne è nessuna che abbia una assegnazione di fondi chiara. Il solo modo di sciogliere questo nodo, che possiamo chiamare davvero gordiano, sarà quello di tagliarlo e di creare un nuovo sistema: ma questo si potrà fare con il tempo, il lavoro e la pazienza”.
Figura 85: Francesco Stefano di Lorena (da Wikipedia)
In questo giudizio – in cui non mancano pregiudizi – pesavano certo le tradizioni culturali della dinastia lorenese e anche la diffidenza del Granduca e dei suoi ministri verso un sistema di governo, quello mediceo, che sembrava assai lontano dai modelli di organizzazione dell’assolutismo europeo. Vi era poi l’estrema necessità dei nuovi governanti di trovare nel Granducato i fondi per mantenere la Corte e tutti coloro che avevano lasciato il loro paese per trasferirsi in Toscana. Inoltre, forte era il senso di insicurezza di un possesso che poteva sempre essere messo in discussione dal riaccendersi delle guerre europee. E ancora: mentre a Vienna l’Imperatore Carlo VI era restio a concedere piena autonomia al genero Granduca Francesco Stefano – il che faceva capire che, in questa fase, il governo della Toscana risiede non solo a Firenze, ma soprattutto a Vienna – l’ultima erede dei Medici, l’Elettrice Palatina, sembrava giocare la parte della vestale dell’antico regime. La sua appassionata difesa del patrimonio mediceo rischiava cioè di creare sospetti e dubbi che tale atteggiamento rientrasse in un comportamento ostruzionista, a danno dei nuovi padroni.
C’è da dire però che il saccheggio dei beni medicei era già in fase avanzata; ancora prima che Francesco Stefano venisse a farsi vedere a Firenze, il Principe di Craon aveva provveduto a un’asta aperta al pubblico (dove antiquari e collezionisti privati poterono acquistare quadri, arazzi, letti, abiti e biancheria) organizzata sulla base dell’argomentazione che questi oggetti non erano compresi nel Patto di Famiglia: insomma, una spoliazione vera e propria, garantita per legge. Ciò che amareggia non è soltanto l’ottusità dimostrata nel distruggere un patrimonio il cui maggior valore consisteva nel mantenimento della sua integrità, ma il fatto che dietro a questi atti si percepiva l’indifferenza dei nuovi padroni verso uno Stato che, a causa della sciagurata politica europea, era stato assegnato agli Asburgo soltanto per caso.
Alla fine di ottobre del 1737, il Richecourt inviava a Vienna un Plan des changemens à faire en Toscane. Articolato in nove punti, il Plan, com’era nelle aspettative del nuovo Granduca, oltre a denunciare le insufficienze e la fragilità dell’assetto istituzionale mediceo – di cui abbiamo appena detto – dedicava grande attenzione al riordino delle finanze, ma soprattutto era finalizzato ad affermare l’autorità del nuovo Sovrano; il che, non foss’altro che per i connotati culturali dello stesso, significava distruggere quanto rimaneva delle caratteristiche dell’”ancien régime”.
Subito dopo la visita di Francesco Stefano e Maria Teresa, avvenuta nel 1739, furono riorganizzate le strutture istituzionali dello Stato con la creazione del Consiglio di Stato, del Consiglio delle Finanze e del Consiglio di Guerra, composti sia da membri del patriziato fiorentino che da fedeli ministri lorenesi; anche se l’indeterminatezza dei compiti assegnati ai tre Consigli, rese difficili e contraddittori i processi di formazione delle decisioni. Continuava poi a funzionare il Consiglio di Reggenza. Fu poi creata una Camera Granducale che soppiantava Magistrature di carattere fiscale nelle quali sedevano per diritto cittadini fiorentini estratti dalle antiche borse. Inoltre, la fitta trama di Tribunali di prima e di seconda istanza, tutti di insindacabile nomina regia, avrebbe assicurato la retta amministrazione della giustizia, in uno sforzo di semplificazione che trovò conferma nell’opera di un nuovo disegno dei confini giurisdizionali, che superava con un tratto di penna le divisioni e i particolarismi municipali di un tempo.
Tra le varie leggi introdotte, quella sulla nobiltà e la cittadinanza dell’ottobre 1750 rispondeva al principio di affermare l’autorità sovrana come unica fonte della distinzione di rango; ciò significava la negazione di quel regime di cittadinanza basato sul riconoscimento dei privilegi riservati ai fiorentini. I Lorena, cioè, non negano alla città di Firenze il ruolo di capitale e di centro più importante della Toscana, ma sono impossibilitati a preservare l’antico vantaggio di esser fiorentino che garantiva a chi era tale posizioni di rilievo nella pubblica amministrazione; e ciò ancor prima che per ragioni politiche, per ovvi motivi di estraneità culturale. Al Richecourt non importava tanto discutere quante famiglie avessero diritto a farsi iscrivere nei libri d’oro del patriziato della nobiltà o della cittadinanza – tre erano gli ordini creati dalla legge del 1750 – quanto affermare a chiare lettere che “in conseguenza di questa legge, nessuno in avvenire potrà ottenere la nobiltà senza l’approvazione del sovrano”. Si determinavano così le condizioni per l’affermazione di quel progetto di riforma in senso assolutistico delle istituzioni del Granducato che il Richecourt aveva auspicato fin dal suo arrivo a Firenze. Il Piano non era ancora completato, quando alla fine del 1756 il Richecourt fu vittima di un colpo apoplettico. Malato, il Conte dovette ritirarsi nella sua natia Lorena, lasciando la guida della Reggenza a un aristocratico genovese, che aveva a lungo servito gli Asburgo, il Marchese Antoniotto Botta Adorno (figura 86).
Figura 86: Antonio Botta Adorno (da Wikipedia)
La scelta del nuovo “Capo del Governo” – questo il titolo che le istruzioni granducali del settembre 1757 riservavano al Botta Adorno – indicava la volontà del Sovrano di recuperare un rapporto con la classe dirigente toscana, cercando di smorzare le tensioni e le polemiche suscitate dai piani di riforma del Conte di Richecourt. È questo un periodo in cui le vicende della guerra dei Sette anni imponevano prudenza ai vertici della Monarchia asburgica che, tra le altre cose, dovette affrontare in quegli anni la delicata questione della successione al titolo granducale. Ci si chiedeva cioè se la Toscana, alla morte del Granduca Francesco Stefano – diventato, nel 1745, Imperatore consorte dell’Imperatrice titolare Maria Teresa d’Austria – sarebbe diventata definitivamente parte integrante dell’Impero Austriaco o se sarebbe invece stata ereditata dal suo secondogenito; quest’ultima condizione era necessaria per conquistare una certa autonomia. Nel 1763, quando si annunciò la decisione di Francesco Stefano di inviare a Firenze con il titolo di “Governatore” il figlio Leopoldo, il secondogenito appunto, si comprese che aveva preso piede l’ipotesi di una Toscana almeno tendenzialmente autonoma.
Tutte queste cose avvengono quando la Firenze celebre per i suoi ricchi commerci era ormai svanita da tempo. Tra le produzioni artigianali andava molto bene la lavorazione della paglia, che già ai primi del Settecento è una delle attività che offre una buona fonte di guadagno; diventerà celebre il cappello di paglia di Firenze (titolo, tra l’altro, di un’opera lirica di Nino Rota, scritta nel 1945); decaduta invece la lavorazione della lana, spostatasi a Prato, anche se a metà del Settecento la grande industria pratese è ancora di là da venire; ai minimi storici la lavorazione della seta. Un clima economico-finanziario, quindi, che sembra una pallida rappresentazione dell’antica gloria; mancava in questi Lorena – e soprattutto nei delegati dei Lorena – quell’inventiva, in qualche caso anche folle, che aveva sempre caratterizzato i Medici.
Anche il tentativo di ricreare una classe nobiliare su basi per certi aspetti nuove, vale a dire connesse non tanto ai privilegi e ai titoli, ma al principio del merito come elemento di distinzione, fu lasciato a metà, e per un motivo molto semplice: il regime monarchico crea e realizza una Corte, a patto che vi sia un Monarca capace di attrarre coloro che ruotano intorno a lui. In Toscana, però, c’era la Monarchia, ma non il Monarca; a ben vedere, cioè, i Craon, Richecourt e Botta Adorno fecero quello che poterono, in considerazione del fatto che coloro che avevano la titolarità del potere – i Lorena – si erano ben guardati dallo stabilirsi in Toscana. Questi ultimi, poi, non si fecero scrupolo, durante la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) di chiedere uomini ai fiorentini da far combattere nell’esercito austriaco: dopo essersi presi “a tavolino” lo Stato, adesso volevano anche i ragazzi dello Stato. La popolazione vide i loro figli inquadrati in tre battaglioni di fanteria e in sei compagnie di granatieri, molti dei quali non tornarono mai più da luoghi che non solo non si sapeva nemmeno dove fossero, ma che neanche si riusciva a pronunciare. In questo periodo umbratile e malinconico, la popolazione diminuì, toccando minimi storici: 850.000 persone censite in tutto lo Stato toscano e appena 76.000 nella città di Firenze: una cifra, quest’ultima, che vedeva una tendenziale flessione della popolazione di circa 2000 persone, registrata dopo la morte di Gian Gastone.
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