In ultima analisi, il contraddittorio è visto come strumento di tutela dei diritti processuali delle parti attuativo di “giustizia” in quanto tale, metodo della “decisione giusta” che non significa dare applicazione alla norma, ma relazionare (in contraddittorio) le parti tra di loro per dare effettività e fondamento ai loro bisogni, tutelando pienamente i diritti umani. Questi forniscono “il modo di parlare di ciò che è giusto” da una speciale angolatura: il punto di vista dell'altro, a cui spetta il riconoscimento di un diritto e a cui verrebbe fatto un torto se gli venisse negato.
Francesco Gentile ha affermato che la controversia è “misura dialettica” del diritto, in quanto «oggetto della controversia è il riconoscimento del diritto sulla cosa che ciascuna delle parti rivendica come proprio e persegue dialetticamente, dimostrando che nella tesi avversaria è presente, e condizionante la stessa, qualcosa che, se radicalmente tematizzato, la fa cadere in contraddizione e la riconduce alla propria versione dell’ordine».
Pertanto, la trasformazione del conflitto in effettività del diritto attua il riconoscimento, sempre inesausto e rivedibile, ma autentico se convenientemente condotto, di ciò che è proprio delle parti in causa», quel riconoscimento, appunto, che sostanzia la “decisione giusta”.
La decisione giusta “attribuisce a ciascuno il suo” (Ulpiano: Ius suum quique tribuendi, il diritto attribuisce a ciascuno il suo), attraverso la dialettica delle parti in contraddittorio e la decisione è giusta quando si dà pieno ascolto ai bisogni ed alle istanze delle parti, strumento e diritto al contraddittorio, per un “accordo di giustizia”. Perché ciò accada, occorre spingersi negli anfratti della pedagogia giuridica e, in particolare, della educazione al diritto di relazione.