Ricordo benissimo la sera che precedette il mio primo giorno di scuola, ricordo che eravamo tornati dal mare e che al giornale radio raccontavano del dispiacere provato da tutti i bambini d’Italia per il fatto che le scuole ricominciassero.
Ricordo che chiedevo incredulo al mio papà il perché di questo dispiacere, visto che io invece, morivo dalla voglia di iniziare l’avventura. Si tratta di ricordi che risalgono a 37 anni fa...
Chissà se anche per lui ci saranno questi ricordi, chissà se fra 37 anni penserà all’eccitazione che lo tarantolava la sera prima, chissà se ricorderà l’ingresso, la foto che gli ho fatto, l’accoglienza dei bambini del secondo anno con le bandierine personalizzate preparate per ogni "primino" e "primina". Chissà...
Quello che è certo è che questa cosa, del tutto normale (l'andare a scuola) mi sta facendo vibrare. Tremo e fremo di gioia nel vedere questa vita avida di esperienze che muore dal desiderio di raccontare la sua giornata scolastica e al contempo si vergogna, nel vedere la costruzione del suo mondo, nel constatare che la sua personalità si sta formando, nell’accorgermi di quanto quello sguardo sul mondo, quei particolari occhi siano un’unicità.
È cosa piccola la normalità e magnificarla come se fosse un’eccezionalità è forse un po’ senile, quando non addirittura patetico, è comunque genitorialità da romanzo d’appendice. Eppure c’è una forza nella normalità, una forza che non mi sarei aspettato di trovare. Cresciuto nella cosmogonia dell’affermazione individuale, del successo sopra a ogni cosa, nella rincorsa del primato, mi accorgo di come la normalità dell’essere papà sia qualcosa di devastante – positivamente devastante – per la mia vita e per i miei valori.
Trovo una gioia immensa in questa normalità e trovo che i miei vecchi sogni di gloria siano ossature preconfezionate su cui avevo, semplicemente, messo sopra i miei abiti. La normalità non mi toglie l’ambizione, ero, sono e rimango ambizioso; ero, sono e rimango convinto di essere meglio rispetto alla mia “posizione”, è solo che non me ne importa un cazzo. È solo che la mia percezione del mondo è cambiata, è solo che – forse e finalmente – comprendo bene come una casa la si debba costruire dal basso e come le ambizioni siano il tetto, il comignolo, l’antenna che si può posizionare solo quando ci sono tutti i piani più bassi, nessuno escluso.
L’invidia c’è quando sento il mio vecchio compagno di studi che fa il nomade digitale, anche io vorrei quella vita, almeno un po’. L’invidia c’è quando incontro vecchi amici che, a differenza di me, fecero a suo tempo il grande salto e adesso sono in carriera nella city. La rabbia c’è quando vedo chi è andato avanti e penso alle mie capacità. L’invidia però è reciproca, la vita la si sceglie ma è anche vero che la vita càpita. A ognuno manca qualcosa e ognuno ha raggiunto qualcosa. Ciò che questa gioia della normalità mi fa comprendere è che la mia vita non avrebbe potuto essere che questa, che le mie ambizioni erano di costruire il tetto senza passare dalla costruzione della mansarda... La forza devastante di queste gioie ha illuminato la mia mansarda, tutta ancora da finire.
Si ha a che fare con una sensazione strana quando si dice che la propria realizzazione è nell’essere padre. Non si capisce se si stia abbassando il tiro, se ci si stia accontentando, se si rasenti la pateticità, se si stia diventando asessuati. Io ho a che fare con queste sensazioni e confesso che sì, mi ci vuole un po’ di coraggio a definirmi felice per il solo fatto di avere un figlio, la stranezza è però nelle orecchie di chi ascolta perché io le mie incertezze me le son chiarite... Avere a che fare anche con una dimensione altra da quella del lavoro, quando ci si definisce, è una cosa che lascia straniti, anche se è del resto un tratto tipico della contemporaneità; la rete ci permette di essere mille dimensioni, mentre prima l’unica (o quasi) dimensione che ci collocava nel mondo era il lavoro, ed era una dimensione che potenzialmente inchiodava. Adesso siamo in relazione con dimensioni altre, strane, originali, che ci rendono più equilibrati perché ci consentono di trovare affinità con altre persone e comprendere che non si è strani.
Cosa avrebbero pensato negli anni Ottanta leggendo queste righe? Che uomo strano sarei sembrato? Oggi è probabile che chi mi legge sia addirittura contento di trovare Paterpuer.
Eccomi allora qui a rivendicare la mia piccola porzione di normalità, a gridare con forza che è bellissimo condividere la vita con una vita che fiorisce. A 43 anni mi par di intuire una inaspettata coerenza nella mia vita, una strada teleguidata da una volontà ferrea contro la quale ho combattuto per anni e che però non è stata più forte del mio destino. Oggi chi sono io? Sono un uomo che cerca di scoprirsi, sono un creativo d’agenzia di comunicazione, sono un vegetariano ormai quasi vegano, sono malato di sport, sono quello che si appassiona per le strane teorie del complotto, sono l’originale del gruppo che s’intrippa per la medicina germanica o la disciplina del digiuno, sono una specie di bamboccione ma sono soprattutto un papà che si sente realizzato quando può fare (essere) il papà.
La mia normalità, che ad alcuno può sembrare "bassa" all’orizzonte, è cielo irraggiungibile per molti. Non solo avere un bambino ma poterlo abbracciare, vederlo sano e felice, camminare con lui, sono cose che fanno parte del mio giorno ma che non per tutti sono così normali. Io non mi rassegno ad avere ciò che ho, anzi: adoro quello che la vita mi ha regalato.
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