Il problema della profondità nei percorsi Italiani per OTS e gli standard in ambito internazionale

Da Markmarinaio

foto del corso 2013 TOP UP del CEDIFOP

la lettera della Capitaneria di Porto di Livorno

Un grande problema nella definizione del commercial diver italiano è la mancanza di una legislazione specifica. Le uniche norme legislative, e cioè i tre decreti ministeriali vigenti, sono molto datati e assolutamente inadeguati alle esigenze del settore. Ci sono stati diversi tentativi di elaborare una nuova legislazione nel settore a partire dal 1997 ad oggi, con ben 11 proposte legislative, che si sono susseguite negli anni, di cui abbiamo spesso parlato nelle news precedenti, ma mai ad oggi una di queste è riuscita a superare l’esame delle varie commissioni parlamentari. Ma analizziamo cosa significa tutto ciò, con un esempio pratico: In data 25 ottobre 2012 un gruppo di OTS iscritti in diversi compartimenti marittimi, hanno inoltrato una lettera alla capitaneria di Porto di Livorno chiedendo chiarimenti sull’impiego di personale nelle operazioni riguardanti la “Costa Concordia” che non risulta iscritto presso alcuna Capitaneria di Porto. La risposta, della Capitaneria di Livorno rispecchia in modo perfetto questa grossa problematica, essa recita testualmente: “…… il decreto Ministeriale 13/01/1979 si applica ai sommozzatori   che esercitano le attività all’interno delle aree portuali. Come è noto il relitto della nave Costa Concordia giace al di fuori dell’ambito portuale dell’isola di Giglio…” In pratica il DM del 1979 è valido e regolamenta solo le immersioni all’interno delle aree portuali in Italia. Al di fuori dei queste aree non esiste ad oggi una legge dello stato italiano, così come accade invece in tutti gli altri paesi, che detta le regole su come possano essere fatte le immersioni lavorative, stabilendo principalmente le regole di sicurezza per queste attività lavorative. Spesso assistiamo ad attività lavorative subacquee senza alcun vincolo, prescritto per legge sulla sicurezza, in mare aperto, ma anche nelle acque interne come laghi e fiumi, che legislativamente non sono sotto il controllo delle Capitanerie di Porto. Alcune eccezioni le abbiamo avute negli anni, a partire dal 1991 con una ordinanza della Capitaneria di Porto di Ravenna che ha dato il primo esempio, dopo un incidente mortale verificatosi nel suo territorio, ordinanza che ha dato seguito ad una serie di altre ordinanze, in altri porti Italiani, fino all’ultima del Porto di Messina nel 20 maggio 2013. Purtroppo, anche se lodevoli queste iniziative che sicuramente hanno il merito di prestare una maggiore attenzione a questa attività, non risolvono ma, per assurdo, complicano ulteriormente il problema, penalizzando chi vuole adeguarsi, con maggiori investimenti per la sicurezza degli operatori alle proprie dipendenze, perché involontariamente favoriscono la concorrenza sleale di ditte che, a qualche chilometro di distanza, presso la capitaneria vicina che non ha emanato una ordinanza che preveda l’obbligo di operare in sicurezza, propongono l’esecuzione dei lavori con prezzi concorrenziali a tutto discapito della sicurezza, togliendo lavoro a chi vuole essere in regola e operare correttamente adottando le procedure necessarie per prevenire il verificarsi di incidenti che purtroppo spesso diventano mortali. Sicuramente di questo è convinto anche l’On. A. Di Biagio che, in un suo intervento alla Camera dei Deputati, sull’ordine dei lavori del 28 Aprile 2011, sottolinea nel suo discorso sull’assenza di una legge pertinente, riferendosi all’ultimo incidente mortale nel settore, che: “Mi assumo ogni responsabilità nell’affermare con certezza e risolutezza che la promulgazione e conseguente applicazione di queste disposizioni avrebbe potuto salvare la vita a questo giovane”. Se a tutto questo si aggiunge anche la mancanza di una informazione chiara nel settore, si crea una maggiore confusione in chi vuole intraprendere l’attività lavorativa del sommozzatore, infatti, senza alcun controllo, si può trovare di tutto, e i giovani in cerca di formazione e lavoro diventano le vittime di chi vuole speculare utilizzando strutture e attrezzature inadeguate, promettendo nei titoli certificazioni che hanno obiettivi di competenze che non potranno mai dare con una preparazione sommaria e assolutamente inadeguata. Cosi, possiamo trovare corsi che neanche secondo la esigua legislazione vigente sono adeguati per ottenere l’iscrizione al registro sommozzatori presso le capitanerie di porto perché non rispettano i pochi dettami presenti, ma per scarsa informazione, anche negli enti pubblici, consentono l’iscrizione al registro di persone che completano un corso senza andare mai in acqua, o completano la propria formazione in qualche week-end o frequentando percorsi formativi che usano tecniche e attrezzature della subacquea sportiva e solo nel titolo del corso dichiarano la sua appartenenza al settore della subacquea industriale che inserisce gli operatori nella categoria dei metalmeccanici, sia in Italia che all’estero. Spesso per dare una maggiore enfasi, prendendo in giro corsisti e istituzioni, promettono corsi a sempre maggiori profondità – per esempio corsi per OTS a – 50 metri – cosi il richiamo è ancora maggiore, ma ancora maggiore è in questi casi l’assoluta inadeguatezza del percorso formativo stesso. E’ vero che i tre DM che racchiudono la legislazione del settore in Italia non parlano di profondità massima da raggiungere, anche perchè essendo stati emanati per regolamentare le attività sommozzatorie all’interno delle aree portuali, la profondità massima coincide con la batimetria del porto in cui gli operatori vengono iscritti. Batimetria di alcuni metri, ma di certo molto inferiore alla profondità di -50 metri. Nella subacquea sportiva ricreativa, l’immersione per raggiungere profondità elevate e risalire, viene pianificata, spesso, diminuendo al massimo il tempo di permanenza sul fondo. Ma questo problema si ingigantisce, di fronte ad una immersione che prevede una più lunga permanenza sul fondo per eseguire un lavoro, come succede nella subacquea industriale. Tutti sappiamo che il tempo di decompressione a cui un subacqueo deve sottoporsi nella risalita in superficie, è direttamente proporzionale sia al tempo di permanenza sott’acqua, sia alla profondità di immersione. Considerando una immersione che supera alcune decine di metri, se la permanenza è abbastanza lunga, la decompressione è lunghissima, a volte impossibile da eseguire in acqua e spesso comporta rischi veri e propri per la salute del sommozzatore. Facciamo un esempio: a circa 48 metri di profondità e permanenza di 10 minuti, il tempo di risalita è di circa 6 minuti, con una tappa di decompressione di 2 minuti a 6 metri. Se alla medesima profondità il diver fosse rimasto per circa 50 minuti, il tempo totale di risalita, decompressione inclusa, diventa di circa 270 minuti. Troppo tempo in cui un diver dovrebbe rimanere in acqua, specialmente se si trova in mare aperto e con temperature rigide. Questo comporta, oltre al disagio del subacqueo di una lunghissima permanenza di diverse ore sott’acqua, anche spreco di risorse economiche: personale addetto alla sicurezza e alla salute della persona immersa, imbarcazione bloccata fino alla fine delle operazioni di recupero del diver. Il fattore economico ha svolto un ruolo importante nel cercare di trovare soluzioni sicure e alternative al modo classico di effettuare questa tipologia di immersioni, specialmente nella subacquea industriale. Due sono le soluzioni: immersione in saturazione (miscele in cui viene sostituito l’azoto con elio), tecnica inizialmente applicata a profondità di – 50 metri fino a profondità attorno a -300 metri (alto fondale), con cui il sommozzatore può, utilizzando le tecnologie adatte e se ha avuto un addestramento adeguato (secondo gli standard della didattica IDSA level 4, o certificazione closed bell dell’HSE-UK, o certificazione francese di Classe 3 mention A, o similari) affrontare anche per interi giorni profondità e attività lavorative e ritornare velocemente in superficie usando la campana chiusa, restando poi in un comodo impianto iperbarico di superficie a fare la decompressione che può durare anche diversi giorni. E’ ovvio che non sono tecniche da sperimentare in un corso per OTS, specialmente se il personale docente non ha le competenze e le conoscenze adeguate e usa attrezzature e tecniche che rientrano nella subacquea sportiva. Naturalmente esistono tecniche precise che permettono questo tipo di attività in sicurezza, di solito nel resto del mondo vengono fatte durante il corso per il TOP UP, applicando tecniche che è impossibile insegnare in un corso base per un OTS che ha come obiettivo quello di lavorare all’interno delle aree portuali. Ma in Italia si fa questo ed altro, visto che basta un pezzo di carta firmato da qualche ignara amministrazione pubblica che garantisce, come deus ex macchina, capacità e competenze mai sperimentate durante i percorsi formativi. E’ arrivato il momento di una rivisitazione della legislazione italiana adeguandola a quella internazionale, auspicando un maggior controllo del Ministero dei Trasporti che tramite le Capitanerie dovrà ripetere l’operazione del 1999, cioè il controllo della validità delle iscrizioni presso le diverse Capitanerie di Porto in Italia, dove riteniamo che una significativa percentuale non ha la documentazione necessaria, o peggio ancora, non ha alcuna documentazione valida che giustifichi l’iscrizione al registro sommozzatori. Sarebbe utile la promulgazione di una legge che preveda una diversificazione di iscrizione ad un registro, non in servizio locale, ma per effettuare attività sommozzatorie in tutta Italia, magari utilizzando come documento guida quello che la ENI spa propone da anni, di cui l’ultimo aggiornamento è arrivato in data 05/Agosto/2013, dove sono previste tre diverse categorie di attività, il divieto dell’uso dell’erogatore e l’utilizzo delle tecniche del TOP UP a profondità superiori ai – 30 metri e quelle dell’altofondale a profondità maggiori di -50. E’ vero che qualsiasi corso per OTS in Italia permette l’iscrizione alla capitaneria di porto, ma è assolutamente sbagliato anche solo pensare, che una semplice iscrizione sia sufficiente per lavorare in offshore. Questo è il grande inganno che ogni anno illude decine di giovani che rincorrono una speranza che presto vedranno infranta, nel momento in cui si avvicineranno a questo ambito e si vedranno scavalcati da chi si presenta con carte e certificazioni in regola. La subacquea industriale ha un suo percorso logico e naturale, perché non viene applicato ai vari livelli di addestramento, cosi come avviene in tutti i paesi del mondo al di fuori dell’Italia? Questa insufficienza e speculazione tutta italiana, ha collocato i titoli italiani da OTS nella categoria dei “prodotti di scarto”, se confrontata con il mercato e le certificazioni valide in ambito internazionale. Ritengo che siano ormai maturi i tempi affinché la legislazione italiana dia delle regole precise e adeguate, simili agli standard internazionali validi in tutti i luoghi dove opera in sicurezza gente che vive di questo mestiere. Ritengo che salvaguardare la vita degli operatori del settore vada messo sempre fra le priorità non negoziabili e che regole chiare, competenza e professionalità permetteranno anche un salto di qualità del settore e il ritorno agli anni d’oro, quando gli operatori italiani erano famosi e rinomati in tutto il mondo.   (di Manos Kouvakis)

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