Ma tra i tanti motivi, quello che mi ha fatto propendere di più verso quell'idea è stato l'immaginare una narrazione del processo a Bin Laden come quella che Hannah Arendt fece per il processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme per il New Yorker, da cui ne ricavò quel capolavoro che è “La banalità del male”. Avrei voluto leggere una cronaca e un percorso storico capace di far riflettere sulla contrapposizione tra una visione della mondo e della vita e l'altra, tra bene e male, ma anche un ragionamento sul terrore, sull'arroganza delle potenze, non manicheo, ma capace di tenere conto anche di un punto di vista “orientalista”.
Certo, se Osama Bin Laden fosse stato catturato e processato la riflessione sarebbe stata più semplice, perché gli americani si sarebbero rivelati i giusti. Invece, con questa giustizia sommaria, un'uccisione da tempo di guerra, in cui tutto è concesso, e con la legittimazione alle torture (come il waterboarding) e alla detenzione prolungata (come Guantanamo), con lo svilimento dei diritti umani per la vendetta, tutto si fa più complesso, meno lineare.
Quanto sarebbe potuto avvenire e quanto è realmente avvenuto possono essere spunti di ragionamenti enormi, per i quali ci sarebbe bisogno di riesumare e riportare in vita Hannah Arendt, o almeno trovare un personaggio adeguato che ora non individuo. Per sbaglio mi è venuta in mente Oriana Fallaci, e ho pensato: “Pensa se fosse stata viva lei, quanto ce l'avrebbe menata”. Sarebbe stata totalmente incapace di trasmettere riflessioni pacifiche e pacate sulla vicenda, avrebbe solamente sputato rabbia. Ecco, a quel punto la mia idea è crollata su sé stessa.