Il processo di pace in colombia

Creato il 09 settembre 2013 da Eurasia @eurasiarivista
Colombia :::: Davide Delaiti :::: 9 settembre, 2013 ::::  

Davide Delaiti ha intervistato per noi la politologa Valeria Eberle (1), attualmente professoressa del corso “Violencia y Conflicto en Colombia” presso l’Università ICESI di Cali (Colombia).

DD – Parlare di processo di pace in Colombia appare come un déjà vu, ossia una riproposizione di tentativi passati e poi inesorabilmente naufragati. Secondo lei come stanno procedendo le negoziazioni tra il Governo e le Farc?

VE – Questo processo di pace differisce dai precedenti per una serie di ragioni. Da una prospettiva militare, le Farc si trovano in un momento differente rispetto al passato. È interessante comparare l’attuale processo di pace con quello, per esempio, del 1998, del Presidente Andres Pastrana. In quegli anni la guerriglia aveva un posizionamento strategico completamente differente. Le Farc potevano contare su maggiori risorse economiche, provenienti dal narcotraffico per lo più, e godevano di maggiore competitività militare. Di conseguenza il confronto sul campo con le forze armate era più aspro e duro e gli innumerevoli sequestri da parte della guerriglia venivano percepiti da parte del Governo come una ferita politica, segno di una fastidiosa impotenza. Gli accordi di pace erano solamente una facciata per coprire la propria riorganizzazione strategica. Era evidente che non nutrivano alcun tipo d’interesse a siglare un accordo di pace, perché non era conveniente per la loro sopravvivenza.

Oggi, invece, la posizione delle Farc è molto più debole, soprattutto grazie all’amministrazione di Alvaro Uribe, che inflisse loro un duro colpo.

È importante però tenere in considerazione anche un altro aspetto, ovvero la trasformazione della società civile negli ultimi anni. Le Farc hanno subito un’enorme perdita di consenso, non solo nelle aree urbane (che comunque era relativamente basso), ma soprattutto tra i campesinos, la fonte dell’ideologia politica delle Farc. Negli ultimi tempi le Farc si sono svuotate dell’appoggio politico anche nelle aree rurali.

Infine, ultimo aspetto importante e non meno rilevante, è quello dello sviluppo economico colombiano. Parliamo dunque di concessione di terre a imprese straniere, dell’attrazione dell’imprenditoria internazionale, l’agro-industria eccetera. In una prospettiva economica la guerriglia ha perso spazio di manovra, e le fonti di finanziamento diventano via via sempre più risicate.

DD – Uno dei punti centrali del Processo di Pace del Presidente Santos è il cosiddetto Marco Juridico por la Paz, una legge che utilizza la Giustizia Transizionale. Secondo lei quali sono gli elementi rilevanti del Marco Juridico in relazione all’esito dei negoziati e al futuro della Colombia?

VE – Occorre fare una considerazione a monte. La maniera con la quale il governo si è posto rispetto ai negoziati di pace e rispetto alla stessa guerriglia è completamente differente rispetto al passato. Questo esecutivo ha una natura molto più tecnocratica rispetto ai precedenti. Al momento del suo insediamento fu creata un’agenda di Governo alla quale il gruppo di negoziazione governativo è rimasto e continua a rimanere molto fedele. Di conseguenza non si è disposti ad allontanarsi da questi punti previamente definiti. Si vuole sostanzialmente evitare che nell’Agenda vengano inclusi aspetti che il Governo colombiano non è disposto a negoziare o trattare. All’interno di questa Agenda è previsto anche il MJP, del quale si discute soprattutto nel Congresso. Rimane un punto sicuramente controverso e potrebbe addirittura costituire un ostacolo sul cammino dei dialoghi di pace.

DD – Perché?

VE – Come in ogni processo di pace, si ripresenta il perenne paradosso che vede contrapporsi le ragioni delle Farc e le norme del diritto internazionale. Da un lato la guerriglia vuole a tutti i costi evitare il carcere e questo MJP genera una condizione specifica per ogni caso. Nello specifico si prevede un trattamento diverso per comandanti e soldati. Le Farc temono che il MJP non sia sufficientemente protettore. Dall’altro c’è il tema del diritto internazionale umanitario, che afferma l’obbligo dello Stato di perseguire i crimini contro l’umanità e che crede che il MJP sia un’ingiusta amnistia nei confronti della guerriglia.

Tuttavia credo che sia doveroso, in situazioni di conflitto come la nostra, rifarsi alla Giustizia Transizionale, pensare cioè ad una condizione di eccezionalità che permetta un esito positivo delle negoziazioni. È innegabile che il MJP prevede un alto grado d’impunità nei confronti della guerriglia. È sicuramente difficile stabilire quali siano le condizioni giuste e corrette nei confronti di tutte le parti in gioco, in questo caso guerriglia e vittime.

DD – Come lei ha affermato, il MJP potrebbe costituire un ostacolo sul cammino per la pace, a causa delle numerose critiche ricevute. A testimonianza ci sono le enormi difficoltà del Presidente presso la Corte Costituzionale. Ricordiamo che il Procuratore Alejandro Ordonez ha definito il MJP come “uno strumento che garantisce l’impunità a tutti i guerriglieri colpevoli di crimini di guerra”. Qual è quindi il suo giudizio del MJP rispetto ai diritti umani, all’impunità e alle vittime?

VE – È molto difficile stabilire un accordo rispetto al tema della giustizia per tutti. Le Farc non daranno facilmente il loro consenso senza un’adeguata protezione. Credo che sia necessario uno scenario politico di negoziazione nel quale sia prevista la Giustizia Transizionale, perché tutte le crisi umanitarie vengono e devono essere risolte con un certo grado di eccezionalità, riconoscendo che si tratta di una condizione politica non ordinaria. Tutti i Paesi che hanno vissuto una transizione post conflitto hanno utilizzato la Giustizia Transizionale. È inevitabile un processo che sacrifichi la giustizia in nome della verità. Per la pace occorre sacrificare qualcosa. Non è cinismo, è semplicemente sano realismo.

DD – Il MJP prevede anche la possibilità di un accesso alla politica per gli ex guerriglieri. Lei crede nella partecipazione politica democratica della guerriglia? Inoltre, se si firmerà un accordo di pace, l’ingresso di ex guerriglieri nelle politica del Paese provocherebbe quasi sicuramente la nascita di una nuova forza politica e sociale. Secondo lei quali potrebbero essere gli scenari futuri?

VE – Credo che sia assolutamente normale che la guerriglia desideri rivendicare il suo peso politico qualora scomparisse militarmente. È importante sottolineare che negli ultimi vent’anni le Farc e le guerriglie sono state accusate di aver perso il loro humus ideologico. Secondo molti nelle loro lotte non c’era più alcuna rivendicazione di natura ideologica, ma un militarismo che sconfinava nel terrorismo. Da qualche tempo la guerriglia si sta sforzando di recuperare il consenso politico.

Io non solo credo che sia più che evidente e logico che la guerriglia rivendichi, attraverso i negoziati, un futuro accesso al confronto politico civile, ma credo che sia positivo. Nonostante molti attriti, il movimento campesino e la guerriglia non hanno ideologicamente divorziato. È normale, dunque, che chiedano di poter accedere alla competizione politico democratica in cambio della deposizione delle armi. Il fatto preoccupante non è che loro chiedano di fare politica e che il MJP lo preveda.

Un gruppo armato, dopo 40 o 50 anni di lotta non vuole sparire a causa di un processo di pace. Occorre invece tenere presente l’impatto psicologico che potrebbe avere un possibile accesso alla politica da parte delle guerriglie. Voglio ricordare un precedente storico, che riguarda il primo tentativo di conversione politica della guerriglia, ovvero il caso dell’Unione Patriottica. Questo movimento politico fu sterminato, ferendo profondamente lo sforzo politico delle Farc. Inoltre, a differenza di altri gruppi armati, come l’M-19, le Farc hanno avuto e, nonostante tutto, hanno un discorso politico chiaro in materia di rivendicazioni contadine, in materia dell’uso della terra e dell’appartenenza della terra. Avevano indubbiamente un grande seguito politico nelle zone rurali, non sicuramente urbane. Tuttavia non darei per scontata una simpatia da parte degli agricoltori per le Farc e questo sottolineerebbe ancora di più la loro perdita di caratura ideologica nell’ultimo ventennio.

A questo si aggiunge che la società colombiana si sia abbastanza polarizzata. Le Farc possono ancora recuperare un consenso nelle zone rurali, anche se nelle elezioni, si sa, la differenza la fa la popolazione urbana.

Esiste quindi un motivo storico per cui le Farc mantengono un atteggiamento paranoico: esse sanno perfettamente che, qualora dovesse avvenire questo ingresso di ex guerriglieri nella politica, non sarà una transizione facile e indolore. Non si aspettano sicuramente un immediato esito politico positivo; anzi, probabilmente sarà lungo e faticoso, perché non hanno esperienza nel fare politica nel mondo civile.

DD – Parliamo ora delle relazioni con il Venezuela. Recentemente il Presidente Santos ha incontrato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, per rilanciare la partnership tra i due paesi. Il Venezuela può ancora aspirare a giocare un ruolo rilevante nel processo di pace?

VE – Credo che all’epoca di Chavez, il Venezuela avesse la possibilità di giocare un enorme ruolo come facilitatore e mediatore all’interno del processo di pace colombiano. Sarebbe stata anche un’occasione per consolidare le relazioni con la Colombia, che erano state burrascose per molto tempo durante l’amministrazione Uribe.

Con la transizione venezuelana, quindi morte di Chavez e elezione di Nicolas Maduro, il ruolo del Venezuela si è notevolmente ridotto, anche come attore in Sudamerica. In questo momento storico il governo venezuelano è molto instabile e molto debole. Maduro non è riuscito e non riuscirà a consolidarsi come guida nella regione, e in questo caso non giocherà un ruolo importante nel processo di pace colombiano.

Tuttavia è innegabile che i negoziati e le mediazioni tra Venezuela e Colombia devono esistere da un punto di vista commerciale. Oltre a condividere degli interessi commerciali i due Paesi condividono un grande universo culturale. Da un punto di vista socio-commerciale, perciò, è importante che i due Paesi mantengano buone relazioni; tuttavia non credo che la Colombia abbia intenzione, in questo momento, di rafforzare i rapporti con il Venezuela. Quello che vedo è che il Presidente Santos sta cercando di diversificare gli alleati commerciali, proprio perché in Colombia si sta diffondendo la preoccupazione per la instabilità in Venezuela. La diversificazione è anche una forma di protezione, come nel caso dell’Alleanza del Pacifico. Anche per questo Santos sta affrontando un momento di transizione per quanto riguarda la strategia commerciale internazionale: sta cercando nuovi alleati, a nord, con gli USA, ma soprattutto nell’Asia.

DD – Da un punto di vista ideologico, le nuove integrazioni commerciali, come l’Alleanza del Pacifico, significano un voltare le spalle al Venezuela?

VE – Non credo che vi siano fattori ideologici. Credo che il comportamento di Santos a livello sudamericano sia dettato solamente da degli interessi macroeconomici. È un tentativo di sfruttare opportunità che a causa dell’ideologia di altri paesi non si riuscirebbero a cogliere. Però non credo che le nuove alleanze o partenariati commerciali della Colombia debbano considerarsi da un punto di vista ideologico. Probabilmente, se vogliamo essere puntigliosi, la Colombia sta cercando, attraverso un progressivo avvicinamento ad altri paesi, di apparire diversa sotto il profilo dei diritti umani: stringere relazioni con paesi come il Venezuela, potrebbe danneggiare l’immagine internazionale colombiana.

DD – Come vede le elezioni del 2014?

VE – È difficile fare questo tipo di previsioni. Il governo di Santos ha vissuto in un momento di trasformazione dell’opinione pubblica, che nei primi anni del 2000 era per la maggioranza uribista. Durante questi anni di governo il fenomeno Uribe e la mentalità uribista si è indebolita e da un punto di vista politico, moderata. La tendenza generale è che in Colombia la popolazione, ma anche le classi dirigenti, abbiano ricercato un’opzione differente dall’estrema destra, spostandosi verso il centro-moderato. Credo che Santos stia cercando di presentare un’opzione politica neoliberale, più moderata e non estremista come il suo predecessore.

Il governo di Santos ha sicuramente un maggiore consenso nei settori della popolazione più urbana, quindi presso una classe medio-alta. Riscontra però enormi difficoltà nei settori meno abbienti, più popolari e rurali, soprattutto a causa del tema economico.

Credo tuttavia che vi siano delle prospettive positive per Santos per quanto riguarda le prossime elezioni: Santos è ben piazzato in termini dell’accettazione e consenso generale. Certo è che non è per niente apprezzato da quei settori sociali che stanno prendendo nuovamente forza nel paese, come gli agricoltori e i movimenti indigeni. Tuttavia, questi ultimi, non sono settori che si rivelano determinanti al momento delle elezioni: quasi tutti i presidenti colombiani sono stati eletti perché hanno ricevuto il beneplacito dalla classe medio alta, delle classi urbane.

*Davide Delaiti, laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche

(1) Valeria Eberle è politologa e professoressa di Scienza Politica presso la facoltà di Diritto e Scienze Sociali dell’università ICESI di Cali, dove tiene il corso “Violencia y Conflicto en Colombia”. Precedentemente ha insegnato Storia del Pensiero Politico e Scienza Politica presso l’Universidad Autónoma de Occidente e presso l’Universidad Tecnologica de Bolivar. Il suo campo di ricerca si focalizza sulle dinamiche conflittuali che hanno caratterizzato e caratterizzano Colombia. Ha coordinato il progetto governativo “Memoria, Territorio y Comunicación” che si focalizzava sulla ricerca dei danni provocati dal conflitto colombiano Governo-Farc.

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