Il racconto di Anatole France, che Sciascia (nella sua postfazione) giudica uno dei più perfetti che il genere annoveri, è del 1902 e manifesta nel procuratore romano in Giudea un antisemitismo comprensibile per la cultura imperiale romana, ma delicatissimo per il momento in cui l'opera del francese viene pubblicata. Di appena quattro anni prima, infatti, è il sanguigno pamphlet che Zola dedicò al cosiddetto affaire Dreyfus, in cui si difendeva un ebreo dalla condanna di tradimento che gli era stata inflitta, in sostanza, per il suo stesso essere un ebreo.
Ma se il J'accuse era costato carissimo a Zola, riaprendo un caso chiuso frettolosamente in piena belle époque, il caso era nel vivo della sua rivisitazione nel momento in cui comparve questo brevissimo e sia pur sotterraneo capolavoro di Anatole France. Il racconto, è bene ribadirlo nuovamente, ha al centro un uomo che non sa, non capisce e non ricorda, ma che intende rimanere estraneo e, semmai, prendere ancora le distanze da questo mondo non-romano. Tutto il contrario di quel Ponzio Pilato tormentato e suggestivo che, tra gli anni '20 e gli anni '30 sarà anima di un cammeo indimenticabile ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, in cerca di una spiegazione per ciò che accadde.
Il rapporto tra Pilato e Lamia si basa su una contrapposizione che Sciascia spiega in termini d'amore: Lamia ricorda Gesù perché ricorda una donna che amava, si direbbe la Maddalena, e che a un tratto prese a seguire il Nazareno. A me questa spiegazione dell'amore che porta necessariamente a Cristo convince poco: se per grazia l'uomo fu in grado di arrivare a Dio attraverso una relazione clandestina e senz'altro poco santa, la donna avrebbe potuto seguire con eguale probabilità una delle numerose sette e religioni che facevano del sesso un contraltare alle tradizioni gnostiche, ostili all'amore carnale.
(Ringrazio il collega T.L. per avermi segnalato questo racconto!)