Il prodigio. Racconto onirico (I)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Ombre… Tutto ebbe inizio nel momento in cui mi vedo mentre sistemo le mie cianfrusaglie nell’armadio. Era sera. Di tanto in tanto davo un’occhiata fuori dalla finestra: il chiarore della luna non riusciva a squarciare l’addensarsi delle nubi. D’improvviso la stanza si oscurò: la vecchia lampadina era scoppiata. Stavo pensando di salire su, quando scorsi un’ombra dietro la finestra che dava sulla strada. Al principio non riuscivo a capire di cosa si trattasse, se fosse qualcuno che stesse spiando o un effetto della sera, magari l’ombra oscillante del lampione. L’ombra non si distingueva bene, però, quando vidi che s’appiattiva contro i vetri opachi, m’accorsi che si trattava di una faccia.
In un primo tempo pensai che quell’ombra misteriosa potesse essere in realtà mio fratello che, a modo suo, si divertiva a spaventarmi. Allora, cominciai a chiamarlo, anche perché pensai che se là fuori ci fosse qualche malintenzionato era meglio fargli sapere che eravamo in due ad affrontarlo. Ma l’ombra, nonostante le mie grida, non solo non si mosse, addirittura premeva ancora di più la sua faccia, tanto che potei scorgere una folta chioma femminile. Restai per un attimo come paralizzato da quella figura ignota che s’ostinava a premere la faccia contro il vetro. “Ma chi sarà questa pazza? Cosa vuole?”, chiedevo a me stesso, mentre restavo immobile in quella mia posizione.
Riuscivo soltanto, nel chiarore incerto della sera, a scorgere appena appena due occhi egizi, dal colore indefinito, che mi guardavano con fissità, e le palme delle mani appoggiate al vetro. D’un tratto, una brezza s’alzò. I capelli dell’ombra svolazzavano in ogni direzione. Vinto lo spavento, afferrai un pezzo di legno vicino al vecchio caminetto e fulmineamente mi precipitai fuori. Con in mano quell’arma raggiunsi l’esterno, ma non trovai nessuno. L’ombra s’era dileguata. Non mi capacitai come avesse fatto a svanire nel nulla. Rimasi per un pezzo a fissare l’unica strada d’accesso che conduceva al mio alloggio, come se potessi con lo sguardo di nuovo materializzare quell’ombra. A meno che non si fosse buttata, scavalcando il muro, nel precipizio non c’erano altre vie di fuga. Ma chi era quella donna, se di donna si trattava, che all’improvviso era apparsa dietro la finestra? E come aveva fatto a sparire nel nulla?
Lessi tutto il mio stupore e lo spavento sulla faccia di mio fratello quando gli raccontai l’accaduto! Per riprendermi da quello shock, avevo deciso di fare due passi per il paese. In quella casa altre volte avevo soggiornato, ma non mi era mai accaduto nulla di insolito. Quando sentivo fare certi racconti mi facevano soltanto sorridere. Una volta mio fratello tutto serio mi disse: «Lo sai che nella stanza dove dormi tu tanti anni fa c’è morta una vecchietta?». Quella notizia non mi suscitava nessuna emozione. Le vecchiette da qualche parte devono morire! Sapevo che più che alla mia paura, mio fratello pensava alla sua: l’idea che io dormissi solo, in quella stanza, dall’accesso indipendente, dove un tempo era morta la vecchia, la alimentava. Come un legno secco alimenta una fiamma. Poi avevo sentito raccontare altri aneddoti su quella casa: il piano superiore un tempo era abitato da alcuni fraticelli, le cui anime vagavano ancora tra le sue pareti. Ogni volta che un rumore strano ci sorprendeva, il pensiero andava a quelle anime che non riuscivano a trovare pace nell’al di là, e che continuavano inquietare e a tormentare le anime dei vivi nell’al di qua.
Quando cominciai ad avvertire un senso di spossatezza, decisi di tornare a casa. Come scosso da quell’emozione cominciai dapprincipio a sentire le ossa indolenzite. Non mi sentivo bene e mano mano che la febbre saliva, la percezione della realtà mi sembrava che s’andasse modificando, come se si frammentasse in tante minuscole particelle: i miei sensi si disgregavano, e ognuno cominciasse a percepire i fenomeni in modo scoordinato, cioè senza riportare le diverse sensazioni ad una loro unità. Osservavo gli ultimi riflessi primaverili e le loro ombre fioche proiettarsi sui tetti, ma era come se fossi capitato nel bel mezzo di un film muto.

Quiete… Mi sembrava che le case e le viuzze fossero state sommerse all’improvviso da una quiete rallentata. Delle nuvole nere si stagliavano contro il cielo. Sembravano montagne enormi. Sentivo soltanto l’eco dei miei passi risuonare nel vuoto. Quando vidi, in un angolo, un cane raspare contro un uscio di casa, guaendo, ebbi come un moto di sollievo. Prima di giungere a casa, nei pressi della chiesetta, nello spiazzetto, fui rallegrato dalla vocina di una bimba che, saltellando, cantava una filastrocca. Man mano che mi avvicinavo potei sentire le parole dalla “r” arrotondata cantate dalla bambina:
Povera Marina,
povera piccina,
sempre stanca,
sempre affranta…

La cosa mi spaventò molto: erano versi che io stesso avevo scritto, ma tanti tanti anni fa. Che strano, mi dissi, come faceva quella bambina a conoscere questo ritornello? Mi avvicinai e, inchinatomi, domandai chi le avesse insegnato quella canzoncina. Lei, timidamente e con occhi smarriti, mi indicò col ditino una persona che stava alla mie spalle, e della cui presenza non mi ero affatto accorto sino a quel momento. Alzatomi in piedi, scorsi una signora anziana, che mi disse: «Mi dica, signore…». Nonostante l’età, credo che doveva essere una donna intorno alla settantina, aveva un viso bellissimo, luminoso, due occhi chiari che sembravano persi nel vuoto. Aveva le guance scavate da rughe profonde che le davano un aspetto sacerdotale. La bambina si rifugiò tra le sue gambe e lei la cinse con le sue mani.
«Ero curioso di sapere da chi ha sentito la filastrocca che cantava». «È una filastrocca antica, che anch’io ho imparato quando ero piccina… come mai le interessa?». Non mi sembrava il caso di spiegarle la ragione del mio turbamento; e pensai che, forse, anch’io l’avevo sentita in un tempo remoto, e poi creduto d’averla scritta io. Sentivo la febbre salire! Premurosa la donna mi chiese se mi sentissi male. Ma non feci in tempo a rispondere, che degli assordanti rintocchi di campane cominciarono a martellarmi le tempie. Nel mio delirio, ogni rintocco sembrava un secolo trascorso. Che strano, mi dissi, sentire le campane suonare a quest’ora della sera!
Trasalii e la vista cominciò ad appannarsi. Vedevo la donna e la bambina farsi sempre più opache. Socchiusi gli occhi per un istante e, quando li riaprii, le due figure erano scomparse nel nulla. Cosa mi stava capitando? Cominciai a chiedermi, come hanno fatto a sparire in un lampo? Mi toccai la fronte, era molto calda. Sarà la febbre. È la febbre, continuavo a ripetermi. Ma non m’era mai accaduto qualcosa di simile. La febbre cominciava ad alterare la mia percezione della realtà, e faceva apparire e scomparire le cose! Quando le campane smisero di suonare, nella testa avvertii un senso di vuoto. Non capivo cosa mi stava succedendo. Era il mio delirio a dare forma a quelle percezioni? Ebbi la sensazione di vivere in un mondo senza vita. Anche il cielo taceva, tutto taceva, non sentivo niente, soltanto il rumore pesante dei miei passi urtare contro l’asfalto. Quando passai davanti a delle viole, che crescevano lungo i bordi del muro della chiesa, mi chinai per sentire l’odore del loro profumo, dicendo a me stesso, sottovoce: «Almeno voi vivete!». Si dice che quando i sensi si chiudono, s’apre il senso dell’anima… forse era ciò che mi stava capitando…
Rientrai a casa, trovai Domenico che preparava la cena, ma non dissi nulla, dissi soltanto che mi sentivo poco bene e che preferivo andare subito a letto. Capii che ci rimase un po’ male...
continua....