Il prodigio. Racconto onirico (II)

Da Bruno Corino @CorinoBruno
 Friedrich, Tramonto (due fratelli)

Voci… Passando davanti alla finestra, non potei fare a meno di scrutare fuori, non so se preso dal timore o dal desiderio di rivedere quell’ombra, poi sentii dei brividi di freddo per tutte le membra; avevo la sensazione si assistere alla disgregazione del corpo. Misi due tre quattro coperte, ma niente riusciva a scaldarmi. Un sudore cominciava a inondarmi. Avevo chiuso tutte le imposte. Sopra sentivo i passi di mio fratello, e quei passi nella mente si trasformavano in tante bollicine. Facevo fatica ad addormentarmi. Mi giravo e rigiravo sotto il peso delle coperte senza riuscire a trovare quella posizione giusta che potesse propiziare il sonno. Non saprei dire quanto tempo fosse trascorso e non avevo né la forza né la voglia di accendere il lume per guardare l’orologio. Ogni tanto i brividi di freddo si intensificavano e i denti mi battevano. Dopo ogni minuto trascorso, avvertivo accrescere un senso di stordimento e un ronzio nella testa.
Le immagini assumevano forme bizzarre, grottesche, surreali; si stendevano, s’allungavano, mutavano, si dilatavano; sembrava che l’una entrasse nell’altra; un particolare, un dettaglio, una tessera scompariva sotto forma di un palloncino che si sgonfiava e un altra se ne presentava, e non riuscivo a trattenerne nessuna in particolare. Era una sarabanda di immagini! A volte alla mente tornava la cantilena della bimba e il sorriso della donna, il rintocco delle campane, il cigolio di una porta che si apriva, l’abbaiare, scale ondeggianti, rumori di passi, catene cigolanti, un secchio d’acqua che si rovesciava, una pioggia scrosciante che sbatteva contro i vetri…
A un certo punto, quando la stanchezza e la spossatezza presero il sopravvento, dandomi infine un attimo di tregua, e quando stavo lentamente scivolando in un sonno leggero e la mente cominciava a veleggiare su acque tranquille e calme, mi destò di colpo una voce: «Soffriamo!».
Sobbalzai ed aprii di colpo gli occhi nel buio! Avevo “visto” distintamente pronunciare quella sola parola. Visto, non sentito. Quella parola là m’era sembrata così statuaria, tanto che se avessi avuto per un attimo la forza di alzarmi, avrei potuto quasi toccarla con mano, misurarne la consistenza, avvertirne il calore e la forma. No, non l’avevo sognato, avevo percepito quella voce in modo netto nella stanza! Era una voce icastica, ne avevo addirittura avvertito la corporeità, e la avevo visto nel buio! Non si trattava di qualche luce bianca o di qualche spettro personificato. Nulla di tutto ciò! Io avevo soltanto “visto” una voce provenire fuori dalla mia mente e quella voce mi era sembrata circoscritta in uno spazio fisico. Non è facile spiegare a parole cosa vuol dire vivere una confusione di sensi: in condizioni normali, non è possibile percepire un suono come immagine. Un suono è un suono, e un’immagine è un immagine. Invece, a me era capitato proprio ciò.
Naturalmente, anche se quella voce l’avevo percepita in modo così chiaro e insolito, nello stato in cui mi trovavo, l’attribuivo comunque al mio essere semicosciente, cioè in quel barlume di lucidità a cui ancora restava aggrappata la mia coscienza come un naufrago allo scoglio, ritenevo che quella percezione fosse stata generata dal mio stato febbricitante, perciò, in un primo momento, non le diedi tanta importanza. Tuttavia, quell’esperienza inedita e sconosciuta, quella frammentazione della realtà, m’aveva sorpreso, come si può essere sorpresi quando si prova un’emozione nuova e diversa, e non davo un peso eccessivo alla causa che l’aveva provocata. Mentre la mente mescolava questi pensieri in modo confuso e io facevo di nuovo fatica a darle un po’ di tregua, cercando inutilmente di dormire, un’altra voce diceva: «È stato un viaggio allucinante!».
Questa volta avevo sentito la voce, ma non riuscivo a distinguere se provenisse da fuori o se l’avessi sentita dentro la stanza. M’aveva sorpreso in uno stato di dormiveglia, per cui era difficile stabilirne la provenienza. Aveva perso l’icasticità, m’era sembrata reale (o verosimile); mentre della prima non ero neanche riuscito a capire se si trattasse di una voce di uomo o di donna, di un adulto o di un vecchio, quest’ultima m’apparve chiaramente una voce di un uomo non più tanto giovane. Questa volta, voglio dire, era anche probabile che la voce sentita venisse da fuori, anche se, nello stato in cui mi trovavo, non avevo la forza per accertarmene. Restai allora in ascolto con l’orecchio teso a sentire se da fuori altre voci o rumori m’arrivassero. Ma l’unica cosa che percepivo era il silenzio della notte! Doveva essere proprio notte fonda, e in quel punto sospeso del mondo non sentivo neanche un lamento di cane o di gatto! I brividi di freddo erano cessati, le immagini avevano ripreso la loro sarabanda, e così nella quiete notturna finii di nuovo per addormentarmi, ma soltanto per qualche istante, così m’era sembrato, perché fui svegliato di soprassalto da un fragoroso rumore di zoccoli di cavalli che percorrevano un selciato di pietre. Erano cavalli che trainavano una carrozza. Nel luogo dove a malapena poteva passare un ciuco! Pur vivendo in quello stato di delirio, mi spaventai. Questa volta a prender consistenza e spessore, ad assumere i contorni inquieti della realtà erano i fantasmi della mia mente delirante, così mi sembrava. Era la mia mente allucinata, pensai, che mi fa sentire queste voci e questi rumori! «Avete fatto un buon viaggio, Padre Procuratore?». «È stato un viaggio allucinante». Avevo gli occhi aperti, ma non vedevo nessuna scena, né ombre, né fantasmi, soltanto voci e rumori; avevo sentito di nuovo la stessa voce dell’uomo non più giovane. «Le colpe saranno riparate!». Una terza voce cadde nel silenzio, era una voce tagliente che mi fece rabbrividire ancora di più, eppure mi era sembrata familiare. Sentii uno schiocco secco di frusta e un voce incitare: «Ah! Ah! Ah!».. che si perdeva nel nulla.
Avevo la gola secca e ripresi a tremare sotto le coperte, ma non avevo le forze per alzarmi. Riuscii con fatica ad accendere il lume sul comodino. Sentivo un vortice nella testa. Presi il termometro e mi rifilai sotto le coperte. Avevo quaranta di febbre! Le voci, i rumori erano scomparsi, ed era tornata quella quiete notturna, poi, come se avessi voluto rievocarli, gridai nel mio delirio: «Le colpe di chi?». La voce che sentii risuonare nella stanza era simile a quella tagliente! Infine, venni risucchiato in un vortice di immagini confuse…


Metamorfosi…
Al mattino, la febbre era scesa, anche se di poco. Ancora mi sentivo tutto in subbuglio. In testa avevo un dolore opprimente. Mi trascinai su per prepararmi un caffè. Quando vidi apparire mio fratello sui gradini della cucina, gli chiesi se lui durante la notte aveva sentito qualche rumore o delle voci. Ovviamente, come m’aspettavo, lui mi disse che aveva dormito come un sasso.
«La febbre comincia a farmi dei brutti scherzi», dissi io mentre mescolavo il caffè: «Sto vivendo degli stati di allucinazione!». Raccontai quanto m’era accaduto il giorno prima, l’incontro con la bambina e la donna, e le voci della notte. «In effetti, che io sappia, vicino alla chiesa non abita nessuna bambina e nessuna anziana che corrisponda alla tua descrizione. Sarà stato l’effetto della febbre che ti ha alterata la mente!». «Lo credo anch’io! Ma non credevo che la febbre provocasse questi effetti. Le immagini, le voci e i rumori sembravano così reali! Anche altre volte ho avuto stati febbrili, ma non mai vissuto esperienze del genere. È come se questo stato febbricitante m’avesse dato il potere o la facoltà di comunicare con un altro mondo!».
Sapevo che a mio fratello, impressionabile com’era, questi discorsi davano fastidio! Infatti, tutto tremolante, mi domandò: «Cosa vuoi dire?». «Nulla di preciso, ma è come se attraverso questo stato mi giungessero frammenti di un’altra realtà, pezzetti di un mondo scomparso. Non si tratta di credere o di non crederci. Può essere che questi frammenti siano il frutto di mie allucinazioni!». Feci una pausa, poi ripresi a dire: «Non so neanch’io cosa credere. Ieri sera, quando ho visto quell’ombra di donna dietro i vetri della finestra mi è sembrato che quella figura stesse cercando qualcuno nella stanza… o meglio, come se cercasse proprio me!». «Ora mi fai rabbrividire». Disse mio fratello: «Perché ti cercava?». «Non lo so! Ma tra lei, la bambina, la vecchietta, il procuratore, l’uomo dalla voce tagliente – che poi mi sono accorto ch’era la mia stessa voce – è come se ci fosse un legame invisibile, un filo misterioso che li lega!». «Secondo me», sentenziò mio fratello, «vedrai che non appena la tua febbre cesserà scompariranno anche queste alterazioni!». «Un po’ mi dispiacerebbe!». Dissi, accarezzandomi la fronte. «Perché? Dovresti essere contento!». «No, invece, perché sento di essere in contatto con un’altra realtà, fosse anche tutto frutto del mio stato febbrile, comunque sto comunicando con qualcosa di diverso. In fondo, la linea che divide la cosiddetta realtà reale dalla realtà visionaria è sottile. Sai, questo stato somiglia a uno stato onirico. A volte si sogna, e si è persino consapevoli di stare sognando, eppure si vuole continuare a sognare». «E se si trattasse di un incubo?». «A quel punto mi sveglierei! Finora queste allucinazioni non mi hanno fatto alcun male. Ho deciso che non prenderò nessuna medicina per attutire questa febbre! Lasciamo che faccia il suo corso naturale. Non credo che una febbre mi possa uccidere. E quando scomparirà, come dici tu, magari s’interromperà anche questo mio contatto». «A volte non ti capisco. Dovresti prendere qualcosa che ti fa passare questa febbre. Ricordati che stasera dobbiamo andare da zio Giovanni, ce la farai a resistere? Tu lo sai che da zio Giovanni bisogna bere, altrimenti s’offende!». «Quando si tratta di fare baldorie sono sempre presente! Adesso mi sento già un po’ meglio, magari oggi pomeriggio recupero un po’ di forze, così potrò reggere la serata…».
Da lontano si sentiva una fisarmonica. Nel vicolo, un gattino venne a strusciarsi sulle mie gambe. Mi chinai, e lo accarezzai con la punta delle dita sotto il mento; lui tese in avanti la testolina nera con una macchiolina bianca e irregolare intorno al muso e mi fece tante fusa. In effetti, fino a cena avevo ripreso un po’ di colori, ma ora mi sentivo di nuovo in fiamme, forse la febbre cominciava a risalire. Appena entrammo, in quello che sembrava un antro di cantina, si sollevarono tante grida di saluti. Il fisarmonicista si alzò per tendere la mano e poi, dopo essersi scolato d’un fiato il bicchiere di vino che aveva lasciato accanto, riprese a suonare una tarantella martellante. Mi trovai seduto di fronte a zio Giovanni, che aveva degli occhi lucidi e brilli. Era tutta una comitiva di uomini che mangiava e beveva. Avevano allestito una lunga tavolata di legno. Tre ragazzi con in mano un bicchiere colmo accompagnavano cantando il musicista, che stava poco lontano dal nostro Anfitrione. Anch’io bevvi il mio primo bicchiere.
Quando posai il bicchiere vuoto sul tavolaccio, zio Giovanni mi disse: «Vuoi che te lo riempio io?». Avevo percepito nelle parole, nel tono, nel movimento delle labbra e degli occhi, nel modo di gesticolare, insomma, in tutto il suo essere un significato sconcio. Lo guardai torvamente e gli dissi con un sorriso di sfida: «Ti piacerebbe? Eh?!». Lui guardò dalla parte di mio fratello e fece finta di non sentire le mie parole. «Ti curi ancora della Cappella di Santa Maria?». Gli domandò mio fratello. «Ah! Dovresti vedere come l’ho sistemata bene». Disse il vecchio tutto soddisfatto: «L’ho fatta diventare uno splendore, è sempre ben pulita. Adesso c’ho sistemato pure dei fiori nuovi. Questo benedetto Comune non mi vuole portare la corrente. Ci vorrei sistemare tante luci». Parlava di quella Cappella con grande orgoglio come se avesse dipinta la Sistina. «Lo sai», disse mio fratello rivolgendosi verso di me, «che zio Giovanni da giovane voleva fare il sacrestano?». «E sì!», sospirò il vecchio, «quando ero ragazzo mi piaceva servire la messa e suonare le campane. Riempiti il bicchiere, questo è un vino ottimo, hai visto come scende giù?». Ogni volta che faceva riferimento al vino avvertivo un senso di disgusto verso quel vecchio. Non era nostro parente, lo chiamavamo zio per la sua anzianità. Lo conoscevamo da molti anni, eppure soltanto quella sera avvertivo quella inspiegabile sensazione spiacevole nei suoi confronti.
«Dai, dai che ti verso altro vino!». A questo ennesimo invito notavo il suo sguardo farsi più cupido. Poggiai il palmo della mano sull’orlo: «No, berrò più tardi, se non ti dispiace». Non credo che mio fratello e il resto della compagnia avvertisse questo filo di tensione scorrere tra me e il vecchio. «Ma non mi hai mai raccontato come t’è nata questa vocazione del sacrestano. Non è che volevi farti prete?». Chiese mio fratello. «No, no», protestò il vecchio, «a fare il prete non ci ho mai pensato, io volevo fare proprio sacrestano; mi piaceva accendere tutte le candele della chiesa». «Magari per spegnerle la sera!». Dissi malignamente. Lui non diede peso alla battuta. Quando buttò giù un altro sorso di vino il suo sguardo si fece più trasognato. «Allora?», lo incitò a raccontare, «dicci perché ti piaceva fare il sacrestano?». «Fu durante la guerra… una notte c’erano dei bombardamenti… la gente scappava… correva di qua , correva di là, avevo tanta paura… io ero rimasto chiuso nella sacrestia… ero rimasto chiuso con tre mandate!». «Cosa ci facevi a quell’ora in sacrestia? Se era durante la guerra dovevi avere una quindicina d’anni…». «Ma com’è curioso tuo fratello!». Si trincerò il vecchio fingendosi allegro. «Lascialo perdere, Giordano quando beve diventa un vero impiccione!». «Perché?», obiettai, «Zio Giovanni una volta ci ha detto ch’è del ’28, i fatti si saranno svolti nel ’43 o al massimo nel ’44, quindi dovevi avere quell’età. Era notte e non mi risulta che la chiesa restasse aperta anche di notte e se ci sono dei bombardamenti mi sembra il luogo meno idoneo dove trovare rifugio. Quindi, perché non dici cosa facevi in sacrestia a quell’ora di notte?». «Ma è proprio un impiccione! Vuoi un altro bicchiere di vino?». Disse il vecchio schermendosi. «Non hai sentito mio fratello cosa ha detto? Se bevo divento ancor più impiccione! Ti conviene allora farmi bere?». «Ma cosa gli ha preso stasera?». «Niente, niente», lo rassicurò mio fratello, «a volte il vino fa brutti scherzi!». «Allora zio Giovanni, perché non racconti come mai sei rimasto chiuso nella sacrestia?». «Ma chi si ricorda più. Sono passati tanti di quegli anni!». «Davvero? Però il particolare delle tre mandate te lo ricordi bene! Chi ti chiuse in sacrestia stava dentro con te o stava fuori?». «Ma che vai cianciando! Ha ragione tuo fratello, tu non devi bere vino, il vino ti va tutto in testa». «Allora, perché non me ne versi un altro po’? T’è forse passata la voglia di “mettere” altro vino nel mio bicchiere?». «Adesso smettila! Stai proprio esagerando e non mi pare il caso di tormentare questo povero vecchio!». «Perché dici questo? Sto solo cercando di capire perché a zio Giovanni piaceva servir messa e accendere la candela al prete, magari prima di coricarsi». Il vecchio s’era molto adombrato. Aveva capito ch’io avevo capito una verità che non dovevo capire. Quando lo guardai arcignamente, nei suoi occhi s’accese un fremito di paura. Il vecchio era completamente spaventato, mentre io rimanevo avvolto nel mio cappotto nero. Quando si versò un altro bicchiere di vino le sue mani tremavano leggermente.
A un tratto alzò lo sguardo su di me e molto gravemente mi domandò: «Ma tu chi sei veramente?». Anch’io lo guardai fisso negli occhi, mentre sentivo le sue parole risuonarmi come una eco infinita nella testa. Non so come accadde, non se chi parlasse, perché io sentii una voce dire: «Non importa ciò che io sono, è importante ciò che tu sei ». Pronunciate quelle parole, il povero vecchio che mi stava di fronte sbiancò e come atterrito da una sentenza inappellabile rimase pietrificato. Mio fratello giudicò che fosse arrivata l’ora di andar via. La compagnia non s’era accorta di nulla. Salutammo tutti e uscimmo a riveder le stelle. Durante il cammino che ci portava verso casa non scambiammo una parola. Sentivo tremiti freschi nell’aria e la febbre salire ancora. Capivo che mio fratello era adirato per come avevo trattato zio Giovanni. Quando arrivammo sotto la chiesetta, mi disse: «Se ti comporterai come stasera ogni volta che ci invitano non andremo più da nessuna parte… Ma che bisogno avevi di fare l’inquisitore con quel vecchio?». «Non lo so cosa mi ha preso a un certo punto. Ma appena siamo entrati sentivo che il vecchio mi sfidava. A che cosa non mi è parso subito chiaro, poi piano piano ho cominciato a capire. Quell’insistere nel versarmi il vino, ammiccando, ha cominciato a darmi fastidio. Da quel momento ho iniziato ad avvertire dentro di me una sorta di metamorfosi. Sarà l’effetto della febbre, ma più facevo delle domande e più mi sembrava che a parlare per conto mio fosse un’altra persona…». «Toglimi una curiosità: ma che volevi dire con quelle parole che tanto l’hanno spaventato?». «Alludi a quell’ultima frase? Mah! Non lo so neanch’io perché l’ho detta e cosa significasse. Ho soltanto avvertito che il vecchio voleva confessarsi! Voleva giustificarsi di un peccato di cui non ha colpa, come se prima di morire volesse consegnare il segreto della sua vita, racchiuso in quelle “tre mandate”, a qualcuno. E quando si è trovato di fronte a colui che aspettava ha avuto paura». «Sì, ma poi non ti ha confessato nessun segreto!». «In un certo senso, mi ha rivelato tutta la sua esistenza, perché ha capito che io ho capito tutto, il suo passato e il suo presente, il suo vizio che col tempo ha voluto convertire in virtù, facendosi uomo devoto. Ma il bello che a me chiedeva anche l’assoluzione! Già… forse… perché indosso questo cappotto nero che mi fa sembrare un corvo!». «Secondo me sono soltanto tue fantasie!». «Può darsi! Ma io mi limito a raccogliere i pezzi che trovo…». «Comunque è meglio che ora vai a letto, così dopo un buon riposo domani ti sarà passata anche la febbre. E mi raccomando, se stanotte senti altre voci non ci far troppo caso!». «Va bene, se risento qualcuno te lo saluto!».
continua...


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