Per la maggior parte (59%) ancora progetti di impresa, le startup italiane sono presenti più al Nord (52%) che altrove, impegnate di ambiti web (49%) e ICT (21%) e formate da 2-3 soci tra i 26 e i 35 anni. Una percentuale importante delle startup italiane (11%) ha deciso di incorporarsi all’estero. Un dato, in crescita del +20% rispetto allo scorso anno, che alimenta il dibattito sulla necessità (o opportunità) di abbandonare l’Italia
La Mind the Bridge Survey considera come startup:
- imprese appena costituite o progetti di impresa;
- operanti in ambiti innovativi;- con intensi piani di crescita;
- che necessitano di apporti di capitale nelle fasi iniziali.
Le startup vengono spesso formalmente costituite solo dopo che la business idea è stata validata e, in alcuni casi, una volta trovati i capitali necessari alla sua realizzazione. Questo spiega come mai ben il 59% della popolazione indagata sia rappresentato da progetti di impresa (“wannabe startup”) che non sono ancora stati “strutturati”. Le imprese già costituite in forma societaria, giovanissime, con un’età media di 1-2 anni, rappresentano invece il 36%. Il 5% infine è composto da corporate spinoff, ossia nuovi progetti avviati da aziende già esistenti con finalità di supportare (attraverso la costituzione di una nuova entità, lo spinoff per l’appunto) processi di diversificazione e innovazione della propria attività.
Il 49% è attivo in ambito web, il 21% in Information and Communication Technologies (ICT) mentre solo un 4,8% si concentra su consumer product e un 3,6% circa su Electronics&machinery. Meno prevalente risulta il ruolo delle imprese operanti nelle clean technologies (1,2%) e quelle attive in ambito biotech/life sciences (0,6%). Il rimanente 19% opera in altri ambiti, specialmente di servizio. I dati confermano ancora una volta l’esistenza di una relazione inversa tra la numerosità delle imprese in un settore e il livello degli investimenti richiesti per avviare un progetto. In ambito web o software sono infatti richiesti investimenti minimi in fase di startup, al contrario di quanto avviene per lo sviluppo di tecnologie in campo biomedicale e biotecnologico o di dispositivi ed hardware.
La maggior parte, anche quest’anno, è localizzata al Nord Italia (52%) – con Roma e Milano a fare da poli catalizzatori – mentre il Centro contribuisce per il 21%, e il Sud &Isole per il 15%, in netta crescita tuttavia, quest’ultime, del +50% rispetto allo scorso anno. Lombardia (2%) e Lazio (18%) si confermano anche quest’anno come le regioni a maggiore densità di startup, immediatamente seguite da Emilia Romagna e Veneto (9%).
È importante inoltre sottolineare come una percentuale importante di startup italiane (11%) abbia deciso di incorporarsi all’estero. Questo dato (in crescita negli ultimi anni, +20% rispetto allo scorso anno) può essere letto come un segnale della sempre minore competitività del nostro paese nell’attrazione degli investimenti e nello specifico delle nuove imprese. Difatti le startup, soprattutto nelle fasi iniziali, sono imprese dotate di una altissima mobilità, almeno a livello potenziale, dal momento che non hanno vincoli operativi (personale, impianti, …) che le legano ad un posto specifico. Quindi disporre di un contesto normativo favorevole alla loro costituzione e crescita (quello che nei paesi anglossassoni è definito “corporate haven“) è strategico se si vuole, se non per attrarre insediamenti dall’estero, almeno per attenuare la fuoriuscita delle nostre realtà aziendali più promettenti.
Questo dato può segnalare un possibile rischio di corporate drain, ossia una fuga delle nostre aziende più promettenti. – segnala Alberto Onetti, Chairman della Fondazione Mind the Bridge – Le startup per loro natura sono scarsamente radicate e quindi tendono a muoversi dove trovano condizioni di contesto più favorevoli alla loro costituzione e al loro sviluppo. Se da un lato sono necessari interventi normativi per rendere il sistema italiano più “startup friendly” – e vedremo come e se il Decreto sviluppo bis contribuirà a colmare questo gap – dall’altro, non bisogna demonizzare la mobilità che, di per sé, non un fattore negativo da censurare a tutti i costi: il recente caso di Decisyon dimostra come un’incorporazione all’estero possa fare da volano anche in Italia, moltiplicando crescita e occupazione”.
Tra i paesi che mostrano una maggiore capacità di attrazione delle nostre startup si segnalano infatti Stati Uniti e Regno Unito. Ed è proprio dagli USA che è arrivata in questi giorni la notizia di un importante closing di finanziamento da 15 milioni di dollari per un’azienda software con sede nel Connecticut e sviluppo tecnologico totalmente insediato a Latina: Decisyon, fondata dall’italiano Franco Petrucci.
Dal punto di vista di un investitore, conta la qualità del team e il valore che i prodotti portano ai clienti – ha dichiarato Erik Jansen, presidente di Decisyon, presente al Venture Camp di Mind the Bridge – L’Italia ha professionalità tecnologiche incredibilmente di talento. E Decisyon ne è un ottimo esempio. Il nostro investimento nell’azienda contribuirà a trasformare questa società italiana di successo in un leader mondiale nel software per le imprese”.
Certamente la scelta di localizzare all’estero può anche essere dettata da specifiche strategie aziendali, quali la ricerca di competenze specifiche o di personale specializzate, di mercati in grado di sostenere lo sviluppo delle startup e di fundraising. In entrambi i casi, gli Stati Uniti, per le dimensioni del loro mercato interno e per il grado di sviluppo della industria del venture capital, rappresentano una meta decisamente interessante per un’azienda con piani di sviluppo ambiziosi.
Dove le aziende si sviluppino è un falso problema, l’importante è metterle in condizione di poterlo fare – ha aggiunto Marco Marinucci, fondatore e Direttore Esecutivo di Mind the Bridge – Il periodo di incubazione da noi a San Francisco è funzionale all’approfondimento, alla qualificazione e al miglioramento della forma imprenditoriale nonché alla valutazione di quali possano essere le possibilità di sviluppo dell’azienda. Alcune delle startup che passano da noi troveranno il loro percorso di sviluppo negli US, per altre questo accadrà in Italia. Quello che è rilevante è che siano messe nelle condizioni di crescere. Il fatto che da quest’anno investiamo nelle nostre aziende ci consente di allinearci sui loro obiettivi e fare dei loro successi i nostri successi”.
FOCUS: LOCALIZATION DRIVERS
FOCUS: ALL’ORIGINE DELLA BUSINESS IDEA
Cosa ispira un imprenditore tanto da voler mettere in piedi una startup? La ricerca nel 67% dei casi, con un impatto maggiore per la ricerca applicata (27%) rispetto a quella di base (7,3%). Dato che conferma indirettamente la difficoltà e il ritardo che il sistema universitario italiano possiede nei riguardi del technology transfer. Altro luogo importante nella genesi della business idea è il posto di lavoro (50%).
FOCUS: IL TEAM
Le startup sono costruite intorno a un gruppo in media di 2-3 soci di un’età compresa tra i 26 e i 35 anni con in media 4-5 dipendenti. Non si tratta di “one man band” ma di gruppi imprenditoriali che aggregano competenze differenti e generano un contributo in termini di occupazione (non elevatissimo ma importante in prospettiva). Il 72% delle startup con un unico founder si trova ancora allo stadio progettuale (“wannabe company”). Il 39% ha dichiarato di aver conosciuto i soci sul posto di lavoro, il 32% in base a rapporti di amicizia preesistenti e il 26% in ambito universitario.
FOCUS: MOTIVATIONAL DRIVERS
Il 77% degli intervistati attiene agli “user entrepreneurs” ossia soggetti che dichiarano di aver avviato una impresa per risolvere un problema che avevano vissuto in prima persona (un prodotto/servizio insoddisfacente, un bisogno insoddisfatto). Molto diffusa tra i fattori motivazionali (68%) anche la volontà di migliorare un mercato esistente o presidiare una fetta di mercato vuota. Per il 53% vince invece la volontà di auto-determinazione (essere il “boss” di se stessi) e auto-realizzazione (51%).
FOCUS: FORMAZIONE
Il 52% circa degli imprenditori ha una laurea di primo livello, il 42% circa ha conseguito anche un master degree), il 10% ha un PhD o un MBA. Di questi l’87% ha studiato in Italia, mente il restante 13% all’estero. Circa l’80% degli startupper ha avuto un’esperienza da lavoratore dipendente, in media pari a 8/9 anni e ben il 25% non è alla sua prima startup, dato che conferma anche in Italia il fenomeno dell’imprenditorialità seriale. L’8% delle startup in precedenza costituite erano state fatte all’estero ma solo il 50% ha deciso di rimanere fuori confine. L’8% degli imprenditori seriali dichiara una exit, mentre l’ampia maggioranza (87%) è ancora coinvolta nell’iniziativa precedente (“parallel entrepreneur“).
FOCUS: L’ACCESSO AI CAPITALI
La forma più diffusa tra le startup per reperire fondi è il bootstrapping (58%). Un 8% ha avuto accesso a grant, un 6% proviene da banche e fondazioni, mentre un ulteriore 6% è stato finanziato da altre imprese di natura non finanziaria. Il 16% ha reperito investimenti in equity da investitori terzi, in prevalenza angels (8%) e seed funds (7%). Solo una quota molto limitata ha avuto accesso a venture capital (1,2%). Eliminando gli estremi della distribuzione dei finanziamenti emerge come l’investimento medio si attesti sui 65 mila euro, valore prossimo al taglio tipico degli investimento seed. Importo molto vicino a quello che Mind the Bridge investirà nelle migliori startup semifinaliste del Venture Camp.