La sera, siedo con Don Vincenzo, fuori dalla porta della sua casa. Un leggera brezza proveniente dal mare, stempera i raggi ancora caldi del sole. La chiamo la carezza di Dio, quella che manca agli sfortunati che vivono rinchiusi a Milano, Firenze, Perugia, Torino. Forse è una ricompensa per i guasti provocati alle case dalla salsedine; per i morti che il mare si porta via, per i disastri che sa compiere quando si scatena.
Mi racconta che con mio padre andavano a girare nei paesi viciniori, dove egli aveva trascorso la sua fanciullezza, appresso a mio nonno, con la sua bottega itinerante, mentre compiva il suo apprendistato di orologiaio, mestiere al quale sarebbe stato attaccato per tutta la vita, anche dopo avere aperto i suoi negozi, anche nell’epoca degli orologi usa e getta.
Mi racconta di una piazza a Rocca Valdina, ove mio padre udiva risuonare i colpi del martello di un fabbro ferraio, sentiti 50 anni prima. E di un passante, fermato per domandargli se lì, in quella casa semi-diroccata, vi fosse stata una bottega di fabbro.
Immagino gli occhi lucidi di mio padre, alla risposta affermativa dell’anziano passante.
Anche Don Vincenzo si commuove mentre racconta.
E’ strano: lo facevo un coetaneo di mio padre, invece è nato sette anni dopo e, tra i singhiozzi, mi confessa che quando dalla Sardegna mia sorella gli telefonò per comunicargli la morte di mio padre, gli sembrò d’aver perso il padre per la seconda volta.
Adesso ho capito da chi ho preso il desiderio di ricercare nei luoghi i ricordi del passato.
Ma è solo a sera inoltrata, quando il sole è tramontato da un pezzo, che passeggiando in riva al mare, ritrovo un ricordo nitido e immutato.
E’ il profumo del mare a riportarmi indietro di quarant’anni. Mi entra dal naso, nei polmoni, ma mi tocca l’anima: lo sento uguale, intenso, indescrivibile, misterioso e lontano.
Proprio come allora.