Il progetto del “Great Nicaragua Canal”

Creato il 25 luglio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Lo scorso 13 giugno l’Assemblea Nazionale del Nicaragua ha approvato il progetto per la costruzione del “Gran Canale Interoceanico”, un’opera mastodontica che, se compiuta, rappresenterebbe una delle opere più ambiziose mai realizzate nel mondo. All’indomani del voto favorevole dell’assemblea, il presidente Ortega ha dichiarato:

“Dopo secoli e secoli di lotte per trasformare in realtà il canale, finalmente ci avviciniamo a questo storico momento che porterà benessere al popolo nicaguarense”. 1

Un canale, quello nicaraguense, che dovrebbe rivaleggiare con quello di Panama, attualmente in fase di ampliamento, e che prevede l’avvio di un’impresa titanica: scavare 210 km con l’intenzione di unire l’Oceano Atlantico con il Pacifico. L’idea di costruire in Nicaragua un canale che collegasse l’Oceano Atlantico al Pacifico risale a più di un secolo fa. Il disegno di un canale navigabile in Nicaragua, sfruttando l’omonimo lago, risale infatti ai primi anni del ’900, quando numerose proposte di collegamento tra i due bacini non raggiunsero mai una fase di realizzazione. Nel 1914, l’apertura a Panama di un progetto identico, finanziato dagli Stati Uniti, contribuì a deporre ogni speranza di Managua per circa un secolo. Oggi, quello che era stato un sogno apparentemente irraggiungibile potrebbe diventare realtà.

Per realizzare il progetto, il presidente Ortega ha siglato un accordo – immediatamente dopo la votazione favorevole al progetto del parlamento nicaraguense – con l’imprenditore cinese Wang Jing, titolare della HK Nicaragua Canal Development Investment Co., società cinese con sede a Hong Kong2. La società cinese ha ottenuto così dal governo nicaraguense una concessione per un periodo di 50 anni – rinnovabili per altri 50 anni – per progettare e realizzare il canale, e infine amministrare i proventi ricavabili da esso. Il valore stimato del mega progetto si aggira attorno ai 40 miliardi di dollari. Si prevede, oltre alla costruzione del canale interoceanico, anche lo stabilimento di opere di supporto per lo stesso: un oleodotto, un “canal secco”, cioè una linea ferroviaria parallela al canale stesso, due porti in acque profonde, due aeroporti internazionali e una serie di zone di free trade lungo la rotta del canale3.
Vale la pena notare che, sino ad oggi, alcuni dettagli circa la realizzazione del progetto non sono stati resi noti, a cominciare dalla rotta del canale stesso. Nell’allegato di 44 pagine alla legge approvata dal parlamento nicaraguense, infatti, si legge che “il canale avrà due porte, una nei Caraibi e l’altra nel Pacifico”4.

Gli studi portati avanti sino ad oggi prevedono un ventaglio di sei rotte possibili tra le quali scegliere. L’unica certezza a riguardo, a fronte del mistero che caratterizza la scelta della rotta che avrà il canale, riguarda lo sfruttamento del Lago Nicaragua. Verosimilmente, pur sfruttando l’ampio bacino d’acqua del lago Nicaragua nella parte orientale del Paese, il canale dovrebbe essere scavato attraverso pianure e montagne per circa 150 chilometri di lunghezza – vale a dire quasi il doppio della lunghezza del canale di Panama che, lo ricordiamo, è lungo 81,1 km -. La via di collegamento tra i due oceani sarà, nelle intenzioni dei costruttori, larga 60 metri e profonda 22.

Secondo le prime stime dei tecnici della FGCN (Fundación del Gran Canal), il canale permetterà il transito di navi superiore alle 250 mila tonnellate, una stazza tripla rispetto a quella delle navi che transitano per Panama. Non solo: a favore della nuova via riportiamo il seguente dato: “l’80% del volume delle merci trasportate via mare non passa per Panama, perché il corridoio marino è accessibile solo a navi che non superino le 60 mila tonnellate5. I costruttori credono anche che, una volta terminato, il canale attirerà il 4,5 % del commercio marittimo mondiale, legato soprattutto all’accorciamento della distanze tra est e ovest: se il canale dovesse diventare realtà, ad esempio, la distanza tra San Francisco e New York si accorcerebbe di 805 km. Inoltre, il prodotto interno lordo pro capite del paese centroamericano dovrebbe raddoppiare in virtù del canale e dei profitti ricavati dai traffici. A queste previsioni, si aggiungono quelle legate all’aumento dei posti di lavoro: 40.000 nuovi occupati direttamente per la costruzione del canale e tra i 5 e 10 mila “garantiti” – sempre secondo le stime della FGNC – una volta entrato in funzione. Nelle speranze dei nicaraguensi, il paese centroamericano dovrebbe divenire, di fatto, il centro nevralgico del commercio mondiale. Non stupisce dunque che la notizia della volontà di costruire il Canale Interoceanico sia stata avvertita da Panama come una doccia fredda. E di certo non lascia indifferenti Taiwan e Stati Uniti, principali “fruitori” del collegamento commerciale dato dal Canale di Panama, che si troverebbero a dover affrontare la competizione di un canale più competitivo e controllato, di fatto, dai cinesi.

Poche le informazioni circa la durata dei lavori – secondo una stima iniziale il canale non vedrà la luce prima del 2024 – e sull’impatto ambientale che un’opera di tali proporzioni avrà sul delicato ecosistema tropicale. Inoltre, non pochi dubbi sono stati sollevati circa la capacità del Nicaragua, paese fra i più poveri al mondo, di poter affrontare il peso finanziario di un’opera di così ampia portata. Durante la votazione stessa del 13 giugno in Parlamento, le forze di opposizione hanno manifestato duramente la loro preoccupazione circa la realizzazione di tale progetto, accusando il presidente Ortega di essere un traditore e di aver consegnato il Paese alla compagnia cinese. A far paura è, dunque, il ruolo chiave che la Cina giocherebbe nella realizzazione del progetto. Una paura che non risparmia gli storici rivali dei cinesi, gli Stati Uniti d’America. Il 14 giugno sul New York Times è apparso un articolo nel quale si criticava duramente la scelta presa dal governo di Ortega: “Le obiezioni degli ambientalisti, i mutamenti delle tecnologie logistiche e gli elevatissimi costi del progetto da 40 miliardi di dollari potrebbero decretare l’ennesimo fallimento di un sogno che il Nicaragua insegue da tantissimo tempo6. Il Movimento per il Nicaragua, un comitato che dà voce ad alcune organizzazioni civili nicaraguensi, ha attaccato direttamente il Presidente Ortega, attraverso un comunicato nel quale si legge: “(…) Il Nicaragua non è in vendita. Il Nicaragua appartiene a tutti i nicaraguensi e non al Presidente Ortega e alla sua famiglia7. Ancora: “Stiamo dando in dono le due più importanti risorse strategiche del paese: la nostra posizione geografica, come un istmo situato tra due oceani, e l’acqua potabile del nostro lago e dei fiumi. Questa è un’enclave all’interno del nostro territorio nazionale, dove le autorità nicaraguensi future non avranno più alcun potere o giurisdizione”.

Alle critiche mosse a tale progetto, il Presidente Ortega, ha risposto che il canale trasformerebbe uno dei Paesi più poveri della zona, creando nuovi posti di lavoro e anche un piccolo boom economico. Un’occasione di crescita economica irripetibile, dunque, che il Nicaragua, desideroso di attirare sempre più investimenti esteri sul proprio territorio nazionale, non può permettersi di perdere. Sulla stessa linea di pensiero le parole di Jacinto Suarez, esponente del partito sandinista e membro del Congresso: “I dati sul trasporto marittimo sono sempre più in aumento e sarebbe una follia non pensare seriamente a un’ipotesi del genere“. In sostanza, il messaggio che i promotori dell’accordo vogliono lanciare riguarda la necessità per il Nicaragua, paese, come già detto anteriormente, tra i più poveri del mondo, di approfittare della più grande risorsa di cui il paese gode: la sua posizione geografica.

Negli ultimi anni l’economia cinese ha guardato con molto favore alle possibilità di commercio e di investimento che offriva e continua ad offrire l’America Latina, con una particolare attenzione alla potenziale crescita economica dei paesi del Centro America. Il gigante asiatico sta rapidamente raggiungendo – e rischia di superare – Europa e Stati Uniti d’America negli scambi commerciali con L’America Latina. Vale la pena ricordare che, attualmente, la Cina è il principale partner commerciale di Brasile e Cile, il secondo in Perù e Argentina. Il governo cinese non nasconde il suo interesse verso le materie prime presenti in Sudamerica e la volontà di vedersi ritagliare un ruolo strategico di partner commerciale, finanziando lo sviluppo dei paesi fornitori seguendo, di fatto, lo stesso modello applicato negli scorsi anni in alcuni paesi dell’Africa. Negli ultimi anni, Pechino è, di fatto, diventata una tra i principali mercati di esportazione per molti paese della regione. E punta a diventare il primo. La Cina, negli ultimi anni, ha offerto e continua ad offrire, forte del suo enorme potere finanziario, fondi e accesso a finanziamenti anche a paesi sudamericani che hanno recentemente subito un default, come Ecuador e Venezuela. Quest’ultimo, solo nel 2007, ha ricevuto circa 33 miliardi di dollari di prestito ponendo come garanzia le sue riserve petrolifere8. Il 31 maggio 2013 al 6 giugno il presidente cinese Xi Jinping ha visitato Trinidad e Tobago, Messico e Costa Rica, siglando con questi paesi importanti accordi e manifestando così apertamente il crescente interesse della Cina a tessere rapporti sempre più intensi con questa area geografica. E appare particolarmente significativa la scelta del leader cinese di incontrare, proprio a termine di questo tour, il presidente Barack Obama. Un segnale politico forte, quello che la Cina ha dato al rivale nordamericano.

Fortemente simbolica, secondo alcuni analisti, la scelta stessa della tappe che hanno caratterizzato il viaggio di Xi Jinping. Trinidad e Tobago fu infatti il primo paese caraibico a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese e a votare favorevolmente per il suo ingresso nell’ONU nel 1971 a discapito di Taiwan9. Il Costa Rica, dal canto suo, è il solo paese dell’area ad avere rapporti con Pechino ma non con Taipei, avendo interrotto i rapporti con Taiwan già dal 2007. In un quadro geopolitico ed economico come questo, l’accordo tra Ortega e il consorzio cinese HK Nicaragua Canal Development assume un carattere ancora più peculiare. La costruzione di un canale “alternativo” a quello di Panama, progettato e costruito dagli statunitensi – e di fatto da essi controllato fino al 2000 – ad opera di una società cinese, diventa emblema della rivalità fra le due super potenze.

Da un punto di vista economico e finanziario, la concorrenza cinese preoccupa non poco il governo statunitense. Questa nuova “invasione” del Dragone in aree del mondo quali l’ America Centrale e l’America del Sud, storico “cortile di casa” verso il quale Washington ha sempre rivolto particolare attenzione, tiene alto lo stato di allerta degli analisti a stelle e strisce. Al contempo, tuttavia, l’incontro tra Obama e Xi Jinping del 6-7 giugno sembra aver dato avvio ad una nuova fase nei rapporti tra Washington e Pechino; una fase, questa, che pone le sue basi sulla consapevolezza dell’interdipendenza economica che lega i due paesi e sulla necessità di una stretta collaborazione che garantisca la soddisfazione di diversi interessi da entrambi le parti: in sostanza, un rapporto win to win10. Se posizioni convergenti sono state trovate sulla questione coreana e sull’annosa questione ambientale, difficile sarà trovare un punto di incontro in ambiti come la sicurezza cibernetica, nota dolentissima fra le relazioni sino-americane. E proprio nei giorni successivi all’incontro tra Obama e Xi Jinping, Edward Snowden, l’ex impiegato della NSA (National Security Agency), reo di aver tolto il velo di segretezza che copriva il sistema informatico di spionaggio statunitense, trovava rifugio ad Hong Kong, città-stato che gode di un’ampissima autonomia anche giuridica, ma che è pur sempre parte della Repubblica Popolare cinese.

I rapporti diplomatici che legano la Cina e gli Stati Uniti, dunque, si fanno sempre più complessi. Ma entrambe le super potenze sanno che la crescita economica di entrambe dipende dal compromesso, legato a quella “convivenza” forzata che l’interdipendenza economica presuppone e con la quale entrambe le super potenze devono fare i conti. Un dato che può aiutare a capire di cosa stiamo parlando è il seguente: per la Cina gli Stai Uniti d’America sono il mercato estero più importante. Il Dragone ha acquistato negli ultimi anni buoni del tesoro statunitensi per un valore complessivo di 1.200 miliardi di dollari ed è detentrice di un forte avanzo nel conto delle partite correnti. Una “bomba nucleare finanziara”, che lega le sorti di entrambi i paesi11. Per non parlare poi della necessaria cooperazione che entrambe le potenze devono attuare per affrontare le grandi sfide globali che caratterizzano questo periodo storico. Una cooperazione che sembra più frutto della necessità – e della convenienza – che della volontà di collaborare.

Per la crescita economica, la sicurezza, lo sviluppo di uno è fondamentale accordarsi con l’altro: è questo che ha reso possibile, necessario, imprescindibile, dare avvio a questa nuova fase di relazioni sino-americane. Una fase che vede la Cina chiedere agli Stati Uniti di rispettare le aree di influenza di ciascuno, garantendo così lo sviluppo e il raggiungimenti di numerosi interessi da parte di entrambi. La volontà cinese è, secondo autorevoli analista, proprio questa: il Dragone si affaccia in America Centrale e in America del Sud con l’intento di accrescere il proprio sviluppo economico. Pechino arriva in America Latina, dunque, essenzialmente per motivi economici, e non per cercare alleati antiamericani. Un comportamento, questo, che i cinesi non vedono attuato dagli statunitensi in Asia Orientale, dove gli Stati Uniti stanno costruendo una rete economica, politica e militare che riguarda numerosi paesi che guardano con una certa ostilità alla super potenza cinese. Se l’incursione cinese in America Latina non vuole che questa diventi teatro di una guerra geopolitica con gli USA, a quest’ultimi la Cina chiede di usare gli stessi criteri in Asia Orientale12.

Conclusioni

Tra i molti scenari ipotizzabili, quello che sembra più verosimile vede Stati Uniti e Cina collaborare quanto più possibile per mantenere, entrambe, una propria area d’influenza, che renda possibile la crescita economica e politica per entrambe. Questo approccio “collaborativo” è un dato di fatto, più che un auspicio per il futuro, una risposta pragmatica alla realtà economica e politica nella quale le due superpotenze devono convivere13. Dopo un periodo di forti contrasti, scaturiti anche dalle mancate aspettative – la Cina, ad esempio, si aspettava un’apertura degli americani sulla questione di Taiwan – in questi ultimi mesi le relazioni bilaterali tra le due super potenze sembrano essersi distese. Da un lato, la Cina ha una nuova classe dirigente, feconda di nuovi leaders, guidata da Xi Jinping, che all’interno dello stesso PPC sta attuando una vera e propria rivoluzione interna; dall’altro il Presidente Obama, al suo secondo mandato, che non dovendosi preoccupare di una rielezione può permettersi, forse, scelte più coraggiose.

Entrambe sono desiderose di evitare gli errori del passato – pensiamo, ad esempio, al mancato accordo sulle emissioni di CO2 nel deludente vertice di Copenaghen del giugno 200914 – ed entrambi sono, naturalmente, consapevoli del ruolo chiave giocato a livello mondiale sia dalla Cina che dagli USA.
Dal 1989, le due potenze, diametralmente opposte ideologicamente, sono di fatto riuscite a svilupparsi fianco a fianco, riuscendo ad evitare guerre e conflitti ingestibili tra i due paesi. La sfida attuale riguarda allora non tanto la creazione di nuovi tipi di collaborazione, lo slancio verso nuovi, differenti orizzonti, quanto piuttosto il tentativo di rafforzare le fondamenta dei rapporti bilaterali tra le due superpotenze, dando vita ad un rapporto di necessaria “fiducia” e gestendo eventuali crisi che potrebbero, innegabilmente, giovare ben poco ad entrambe.


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