I lavori di Jamie Reid sbarcano a Modena, in occasione del Festival Filosofia. A chi ama il punk, diciamolo, un po’ brucia, vederlo associato con una delle manifestazioni più pop della tradizione dei festival culturali italiani. Ma, checché si pensi del Festival modenese, si deve riconoscere che questa volta offre l’opportunità di visitare una mostra che promette molto. Di Jamie Reid – e del crowdfounding che è stato lanciato per sostenere l’evento – parleremo in un post prossimo: per ora, qualche considerazione semiseria sulla possibile connessione tra punk e filosofia.
Il fatto che il punk sia spesso definito, più che come un codice culturale, come un’attitudine, deve essere un indizio, una traccia della sua vicinanza ad una sensibilità di tipo filosofico. Questa vicinanza è indubbia, se è vero che è più usuale parlare di una filosofia del punk, che di una filosofia di qualsiasi altra tendenza musicale o subcultura. In che senso e in che aspetto il punk è filosofico? Non nella sua capacità di esprimere messaggi politici positivi, determinati, che non possono, in ogni caso, essere ricondotti ad una posizione compatta, se consideriamo la vicinanza delle sue diverse tendenze a movimenti politici tra loro opposti, dalla sinistra anarchica al filonazismo. In generale, l’aspetto più interessante di una forma d’arte non coincide con ciò che essa ha detto esplicitamente, giacché per dire esplicitamente esistono i saggisti. Quello che è più interessante è l’aspetto che scoviamo tra le righe, la parola autenticamente poetica, l’espressione senza contenuto che era la cifra dell’arte per Adorno. Come ha notato Simon Frith, la produzione musicale di un gruppo culturale non è la traduzione delle sue idee ed esperienze: piuttosto, queste si articolano nella musica stessa, e vi è un rimando tra costumi e musica, tra musica e vita sociale e lavoro e convinzioni politiche, che rende illecito il tentativo di rintracciare la priorità di un aspetto sugli altri. Il punk lancia un grido che attraversa i decenni, e che non è portatore di un messaggio univoco e definito. Esso è espressivo proprio perché privo di quella compattezza assoluta che lo avrebbe consumato e svilito, che avrebbe fatto sì che non avesse niente da dire. Il punk è filosofico nel suo essere fenomenologia di una realtà che esso sconvolge e aggredisce, senza mai sostituirla con realtà nuove, senza mai, di fatto, superare la linea della denuncia, senza giungere, dunque, a prescrivere soluzioni. Il suo continuo contraddirsi (Punk’s dead), lo sbeffeggiare se stesso (definendosi The great rock’n’roll swindle, la grande truffa del rock’n’roll), il disprezzo dei canali da esso stesso usati (si pensi alla canzone di addio dei Pistols alla casa discografica E.M.I.), sono parti di una libertà, di un’ironia – nella sua accezione più alta -, di un’apertura a punti di vista contraddittori, di un’incoerenza consapevole, che è un gioco, il gioco filosofico dell’epoché, del mettere in dubbio le proprie stesse posizioni proprio mentre le si grida con convinzione. Il filosofo, è stato detto, è colui che possiede il gusto dell’evidenza e il senso dell’ambiguità. Ecco l’importanza dell’aspetto attitudinale del punk. Il motto DIY, più che un messaggio positivo, è una presa di posizione metodologica: è, in senso ampio, è un invito a “provarci”, a mettere in campo, non solipsisticamente, le proprie idee, le proprie proposte, la propria versione del mondo, che è precisamente l’eterno compito della filosofia.