Non ricordo mio padre, non credo di averne mai avuti, ma ricordo invece il giorno della mia nascita con estrema malinconia: lentamente mi affacciai al mondo, timido come uno scolaro il primo giorno di scuola elementare - ma senza il fiocco bianco - e la prima cosa che vidi fu lo sguardo esterrefatto della madre di mia madre.
Crebbi tra scetticismo e imbarazzo fino all’età matura; fino a quando non consolidai una maggior consapevolezza di me e delle mie potenzialità. Ma mi sentivo solo. Solo e umiliato. Emarginato da tutti, in più di un’occasione dubitai anche della mia genitrice e mi convinsi sempre più del fatto che si volesse liberare di me.
Le donne mi fissavano con aria incredula, ponevano a mia madre le domande più assurde sul mio conto e avvertivo un certo disagio da parte sua nel trovare risposte. Gli uomini invece, all’inizio m’ignoravano ma poi, prima o poi, anche i loro sguardi si catalizzavano su di me. Magari solo per un secondo ma mi guardavano.
Un giorno, la sua amica del cuore, credo si chiamasse Anna, cominciò a fissarmi. Non avevo mai visto uno sguardo così minaccioso e pieno d’odio nei miei riguardi. Cosa le avessi fatto non l’ho mai capito. Senza distogliere lo sguardo da me, s’infilò un paio di guanti in lattice e con i pollici cominciò a premermi forte sulle tempie. Ferma! Ferma! Le gridavo, ferma! Ma niente, non ne voleva sapere. Poi esplosi. Una lacrima di sangue e il buio cieco che delimita il confine tra l’essere e l’avere... un punto nero.