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Il Quaderno di Maya è un romanzo atipico, un viaggio interiore di Isabel Allende nell'incontaminato arcipelago di Chiloé.

Creato il 08 ottobre 2012 da Rstp

Il-quaderno-di-Maya-Allende recensioneMaya Vidal, l'adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell'alcol e della droga, riesce a riemergere dai bassifondi di Las Vegas e, in fuga da spacciatori e agenti dell'Fbi, approda nell'incontaminato arcipelago di Chiloé.

In queste isole remote nel Sud del Cile, nell'atmosfera di una vita semplice fatta di magnifici tramonti, solidi valori e rispetto reciproco, Maya impara a conoscersi e a conoscere la sua terra d'origine, scopre verità nascoste e, infine, l'amore. A queste pagine si alterna il crudo racconto della sua difficile storia precedente, una vita fatta di marginalità e degrado, solitudine e cattive compagnie, nella quale precipita dopo la morte dell'amatissimo nonno. Isabel Allende torna a raccontare la vita di una donna coraggiosa in un romanzo che affronta con delicatezza le relazioni umane: le amicizie incondizionate, le storie d'amore palpabili come quelle più invisibili, gli amori adolescenziali e quelli lunghi una vita. Un ritmo incalzante, una prosa disincantata per questa nuova prova narrativa che si tinge di noir e per l'ennesima galleria di donne volitive e uomini capaci di amare.

La gran parte delle donne scaturite dalla penna della scrittrice cilena sono esseri indomiti, che non chiedono a nessuno il permesso di vivere, amare e sbagliare, e proprio su questa unione di carattere e fallibilità costruiscono le premesse per l'amore viscerale che lettori e lettrici provano inevitabilmente per loro.

Dalle tante protagoniste de La Casa degli Spiriti a Eva Luna, dalla Inès del romanzo eponimo alla Aurora di Ritratto in seppia, fino ad arrivare all'autrice stessa e alla figlia Paula, al centro di alcune fra le pagine più intense nella ricchissima produzione di Allende, sono le donne ad occupare il centro della scena, nei romanzi letti e amati in tutto il mondo da trent'anni a questa parte.

Prendete ad esempio Maya, la protagonista dell’ultimo Il quaderno di Maya. Qui si racconta delle peripezie di Maya Vidal, una ragazza di 19 anni con un passato più denso di avvenimenti e drammi di una soap latinoamericana. Cresciuta dai nonni, l'amatissimo Popo, e la di lui moglie Nini, Maya passa sul finire dell'adolescenza un lungo periodo a Las Vegas che definire turbolento sarebbe riduttivo.

In seguito alla morte di colui che la ragazza continuerà a chiamare "Il mio Popo", infatti, la ragazza si trova in un turbine esistenziale drammatico, che le fa smarrire tutte le coordinate e la porta a cacciarsi in grossi guai.

Grossi al punto che Nini - la nonna - non troverà altra via d'uscita che quella di spedire Maya in un arcipelago nell'estremo sud cileno, Chiloé, dove la ragazza possa trovare protezione e ospitalità in attesa di tempi migliori.

La protezione è garantita dall'isolamento che Chiloé offre a ciascuno dei suoi abitanti, essendo una terra tagliata fuori da qualsiasi rotta turistica o di interesse economico. Quanto all'ospitalità, provvederà Manuel, antropologo amico di nonna Nini, che saprà capire le molte qualità di Maya e le offrirà un lavoro. Il contrasto fra la Las Vegas dei bassifondi che Maya ha bazzicato durante la sua travagliata adolescenza e la natura primordiale, selvaggia e incontaminata di Chiloé è reso in maniera efficace dalla scrittura, e la suggestione è ulteriormente amplificata dalla scoperta di un segreto familiare custodito nell'ambiente ad un tempo edenico e minaccioso di Chiloé.

La storia di "Maya" è la risposta di Allende alle preghiere dei suoi nipotini, che le chiedevano da tempo un libro con personaggi nei quali potersi identificare, una storia che presentasse motivi di fascino anche per i ragazzi di oggi.

Ma bisogna dire che il risultato non è certo ascrivibile al filone della letteratura per ragazzi, perché molte delle situazioni vissute o rievocate da Maya nel corso del racconto sono cariche di una brutalità decisamente inadatta ad una platea di lettori giovanissimi.

È insomma, quello che abbiamo fra le mani, un classico "alla Allende", con tutti i temi cari alla scrittrice: l'esilio e il ritorno, la volontà e il carattere come viatici alla propria felicità, e - su tutto - la capacità di realizzarsi e crescere nel confronto con l'altro.

Una settimana fa, all'aeroporto di San Francisco, la nonna mi abbracciò senza piangere e mi ripeté che, se avevo  a cuore la mia esistenza, non dovevo mettermi in contatto con nessuno finché non avessimo avuto la certezza che i miei nemici non mi cercavano più. La mia Nini è paranoica, come tutti gli abitanti della Repubblica popolare indipendente di Berkeley, perseguitati dal governo e dagli extra-ri, ma nel mio caso non stava esagerando: qualsiasi pre­venzione non sarebbe stata di troppo. Mi consegnò un quaderno con cento pagine perché tenessi un diario della mia vita come avevo fatto dagli otto ai quindici anni, quando ancora il destino non mi aveva girato le spalle. "Avrai tempo per te, Maya. Approfitta per scrivere delle enormi sciocchezze che hai commesso, magari in questo modo ti rendi conto della loro portata" mi disse.

Per non offenderla, misi il quaderno nello zaino, ma non avevo intenzione di usarlo, anche se qui, in effetti, il tempo si dilata e scrivere è un modo per occuparlo. Questa prima set­timana di esilio è stata lunga per me. Mi trovo su un'isoletta quasi invisibile sulla carta geografica, calata in pieno Me­dioevo. Mi risulta complicato scrivere della mia vita, perché non distinguo tra i ricordi e ciò che è frutto della mia imma­ginazione; la pura verità può risultare tediosa e per questa ra­gione, senza rendermene conto, la modifico o la enfatizzo, an­che se mi sono riproposta di correggere questo difetto e di mentire il meno possibile in futuro. Ed è così che ora, quan­do perfino gli yanomamis dell'Amazzonia usano i computer, mi ritrovo a scrivere a mano. Procedo lentamente e la mia gra­fia sembra cirillico, visto che nemmeno io riesco a decifrarla, ma immagino che pagina dopo pagina inizierà a migliorare. Scrivere è come andare in bicicletta: non lo dimentichi, per quanto passino anni senza fare pratica. Cerco di procedere in ordine cronologico, dato che un qualche ordine ci deve esse­re, e ho pensato che seguire questo mi sarebbe risultato faci^ le, ma perdo il filo, divago o mi ricordo di qualcosa di im­portante diverse pagine più avanti e non c'è più modo di inserirlo. La mia memoria si muove tra cerchi, spirali e acrobazie da trapezista.

Sono Maya Vidal, diciannove anni, sesso femminile, nu­bile, senza un innamorato per mancanza di opportunità e non perché sia schizzinosa, nata a Berkeley, California, passaporto americano, temporaneamente rifugiata in un'isola nel Sud del mondo. Mi hanno chiamato Maya perché la mia Nini ha una passione per l'India e perché ai miei genitori non è venuto in mente un altro nome, pur avendo avuto nove mesi tempo per pensarci. In indi maya significa "incantesimo, illusione, sogno". Niente a che vedere col mio carattere. Atti­lla mi starebbe meglio, perché dove passo lascio solo terra bruciata.

La mia storia inizia in Cile con mia nonna, la mia Nini, molto prima che nascessi, perché se lei non fosse emigrata all’estero, non si sarebbe innamorata del mio Popò né si sarebbe stabilita in California, mio padre non avrebbe conosciuto mia madre e io non sarei io, bensì una ragazza cilena molto diversa.

Come sono? Un metro e ottanta, cinquantotto chili, gambe muscolose, mani impacciate, occhi azzurri o grigi, secondo l'ora del giorno, probabilmente bionda, ma non ne sono certa visto che da parecchi anni non vedo il colore naturale dei miei capelli. Non ho ereditato l'aspetto esotico di nonna, con la sua pelle olivastra e quelle occhiaie scure e danno un'aria dissoluta, e nemmeno quello di mio padre, eJegante come un torero e altrettanto vanitoso; non assomiglio nemmeno a mio nonno,il mio magnifico Popò, sfortunatamente non è il mio progenitore biologico ma il secondo marito della mia Nini.

Assomiglio a mia madre, almeno per corporatura e colore della pelle, una principessa della Lapponia, come credevo prima di avere l'uso della ragione, ma una hostess danese della quale padre, pilota, s'innamorò in aria. Lui era troppo giovane per sposarsi, ma si mise in testa che quella era la donna della sua vita e la inseguì con ostinazione finché lei non accettò per stanchezza. O forse perché era incinta. Il fatto è che se ne pentirono dopo meno di una settimana.. Qualche giorno dopo quando suo marito era in volo, mia madre fece le valigie,e prese un taxi. La mia Nini era in giro per San Francisco a fare campagna contro la Guerra del Golfo, ma il mio Popò trovò il fagotto che lei gli allungò senza dargli nessuna spiegazione,prima di salire di corsa sul taxi che la stava aspettando.

La nipotina era così leggera che stava in una sola ma­no del nonno. Poco dopo la principessa  danese spedi per posta i docu­menti del divorzio e già che c'era la rinuncia all'affidamento della figlia. Mia madre si chiama Marta Otter e l'ho cono­sciuta l'estate dei miei otto anni, quando i nonni mi portaro­no in Danimarca.

Sono in Cile, il paese di mia nonna Nidia Vidal, dove l'o­ceano si mangia la terra a morsi e il continente sudamerica­no si sgrana in isole. Per essere precisi, mi trovo a Chiloé, nella regione di Los Lagos, tra il parallelo 41 e il 43, latitu­dine Sud, un arcipelago di circa novemila chilometri qua­drati di superficie e più o meno duecentomila abitanti, tutti più bassi di me. In mapudungun, la lingua degli indigeni del­la regione, Chiloé significa terra dei cahuiles, i gabbiani dal­la voce stridula e dalla testa nera, ma si sarebbe dovuta chia­mare terra del legno e delle patate. Oltre a Isla Grande, do­ve si trovano le città più popolose, ci sono molte piccole iso­le, parecchie delle quali disabitate. Alcune formano piccoli gruppi di tre o quattro e sono così vicine le une alle altre che con la bassa marea sono collegate tra loro via terra, ma non ho avuto la fortuna di finire in una di queste: vivo a quarantacinque minuti di lancia a motore, con mare calmo, dal pae­se più vicino.

Il mio viaggio dal Nord della California fino a Chiloé è iniziato sulla nobile Volkswagen gialla di mia nonna, che dal 1999 ha avuto diciassette incidenti ma corre come una Fer­rari. Sono partita in pieno inverno, in uno di quei giorni ili vento e pioggia in cui la baia di San Francisco perde i colori, e il paesaggio sembra disegnato col pennino, bianco, nero,! grigio. La nonna guidava con il suo stile, a singhiozzi, aggrappata al volante come a un salvagente, con gli occhi in­chiodati su di me più che sulla strada, intenta a darmi le ulti­me istruzioni. Non mi aveva ancora spiegato esattamente dove mi stava mandando; Cile era stata l'unica parola che mi aveva detto quando aveva progettato il piano per farmi sparire. In macchina mi rivelò i particolari e mi consegnò una picco­la guida turistica in edizione economica.

"Chiloé? Ma che posto è questo?" le domandai. "Lì ci sono tutte le informazioni di cui hai bisogno" disse indicando il libro.

"Sembra piuttosto lontano..."

"Più ti allontani e meglio è. A Chiloé ho un buon amico, Manuel Arias, l'unica persona al mondo, oltre a Mike Kelly, a cui posso chiedere di tenerti nascosta per uno o anni. "

"Uno o due anni? Ma sei impazzita, Nini?"

"Senti, ragazzina, ci sono momenti in cui non si ha il minimo controllo sulla propria vita, le cose succedono e basta, e questo è proprio uno di quei momenti" mi annunciò con il viso incollato al parabrezza, cercando di orientarsi, mentre viaggiavamo alla cieca nel groviglio di autostrade, arrivammo appena in tempo all'aeroporto e ci separammo senza troppe smancerie; l'ultima immagine che conservo e la Volkswagen che si allontana a sobbalzi nella pioggia. Viaggiai per diverse ore fino a Dallas, premuta tra il finestrino una cicciona che sapeva di noccioline tostate e poi su un aereo, che mi avrebbe lasciato a Santiago dieci ore dopo ero affamata, in preda a ricordi, pensieri e immersa nella lettura del libro su Chiloé, che esaltava le bellezze delle chiese di legno e la vita rurale.

All'improvviso apparve una valle verde, i campi seminati e in lontananza Santiago, dove sono natimia nonna e mio padre e dove vive un pezzo della storia della mia famiglia.

Del passato di mia nonna, raramente ne parla, come se la sua vita fosse iniziata solo quando conobbe il mio Popò. Nel 1974, in Cile, morì il suo primo ma­rito, Felipe Vidal, qualche mese dopo il golpe militare che ab­batté il governo socialista di Salvatore Allende e instaurò nel paese una dittatura. Rimasta vedova, decise che non voleva vivere sotto un regime oppressivo ed emigrò in Canada con il figlio Andrés, mio padre. Lui non ha potuto aggiungere mol­to a questo racconto, perché ricorda poco della sua infanzia, ma venera ancora suo padre, di cui sono sopravvissute solo tre fotografie. "Non torneremo mai, vero?" commentò An­drés sull'aereo che lo portava in Canada. Non era una do­manda, ma un'accusa. Aveva nove anni, negli ultimi mesi era maturato all'improvviso e pretendeva spiegazioni, dato che si rendeva conto che sua madre stava cercando di proteggerlo con mezze verità e mezze bugie. Aveva accettato con forza d'animo la notizia dell'improvviso attacco di cuore di suo pa­dre e il fatto che fosse stato sepolto senza che gli fosse con­cesso di vedere il corpo e di congedarsi da lui. Poco dopo si era ritrovato su un aereo diretto in Canada. "Certo che tor­neremo, Andrés" gli aveva assicurato sua madre, ma lui non le aveva creduto.

A Toronto erano stati accolti dai volontari del Comitato per i rifugiati, che li rifornirono di indumenti adeguati e li sistemarono in un appartamento ammobiliato, con i letti fatti e il frigorifero pieno. Per i primi tre giorni, finché durarono le provviste, madre e figlio rimasero rinchiusi, rabbrividendo per la solitudine, ma al quarto giorno apparve un'assistente sociale che parlava uno spagnolo discreto a informarli dei benefici e dei diritti di qualsiasi abitante del Canada. Prima di tutto ricevettero lezioni intensive di inglese e il bambino !u iscritto a scuola nella classe che gli corrispondeva; poi Nidi| riuscì a ottenere un posto come autista per evitarsi l'umiliazione di ricevere l'elemosina dallo stato senza lavorare.

Il breve autunno canadese cedette il passo a un inverni polare, stupendo per Andrés, ora chiamato Andy, che sco­prì la gioia del pattinaggio sul ghiaccio e dello sci, ma insopportabile per Nidia, che non riuscì a trovare del calore Ine a superare la tristezza di aver perso suo marito e il suo paese. Il suo stato d'animo non migliorò con l'arrivo di un'incerta primavera né con i fiori, che spuntarono come per magia in una sola notte là dove prima c'era un duro strato di neve. Si sentiva priva di radici e teneva la valigia pronta, in tesa dell'opportunità di tornare in Cile non appena fosse finita la dittatura, non potendo immaginare che sarebbe durata sedici anni.

Nidia Vidal rimase a Toronto per un paio d'anni, contando i giorni e le ore, finché non conobbe Paul Ditson II, il mio Popo, un professore dell'Università di Berkeley che era anche a Toronto per tenere una serie di conferenze su uno sfuggente pianeta, la cui esistenza cercava di dimostrare mediante calcoli poetici e salti d'immaginazione. Il mio Popò, uno dei primi astronomi afroamericani a esercitare una professione in cui la schiacciante maggioranza era bianca, era un'eminenza nel suo campo, autore di diversi libri.

Per una di quelle casualità da romanzo aveva concluso la sua visita in Cile lo stesso giorno del 1974 in cui lei era parti­ta con suo figlio per il Canada. Sono arrivata a pensare che poteva benissimo darsi che, senza conoscersi, fossero stati vi­cini in aeroporto, in attesa dei rispettivi voli, ma stando a lo­ro ciò non è possibile, perché lui avrebbe notato quella bella donna e anche lei lo avrebbe visto, perché un nero richiama­va l'attenzione nel Cile di allora, specialmente se così alto ed elegante come il mio Popò.

A Nidia fu sufficiente una mattina di guida per Toronto insieme al suo passeggero per capire che possedeva la rara combinazione di una mente brillante con la fantasia di un so­gnatore e la totale mancanza di senso pratico, che lei invece si vantava di possedere in abbondanza. La mia Nini non riu­scì mai a spiegarmi come arrivò a tale conclusione dal vo­lante dell'automobile e in mezzo al traffico caotico, ma il fat­to è che ci prese in pieno. L'astronomo sembrava sperso co me il pianeta che cercava nel ciclo; poteva calcolare in meno di un batter d'occhio quanto ci mette una navicella spaziale ad arrivare sulla Luna viaggiando a 28.286 km all'ora, ma rimaneva perplesso davanti a una caffettiera elettrica. Era da anni che lei non sentiva il vago battito d'ali dell'amore e quel l'uomo, molto diverso dagli altri che aveva conosciuto nei suoi trentatré anni, la intrigava e la attirava.

Anche il mio Popò, piuttosto spaventato dalla temerarietà con cui la sua autista guidava, provava curiosità per la donna che si nascondeva dietro una divisa troppo grande. Non era uomo da cedere facilmente agli impulsi sentimentali e se mai gli attraversò la mente l'i­dea di sedurla, la scartò immediatamente quasi fosse una seccatura. Invece la mia Nini, che non aveva nulla da perdere decise di affrontare apertamente l'astronomo

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