A dispetto del sottotitolo lo trattenemiento de peccerille, apposto alla raccolta Lo cunto de li cunti, le fiabe barocche di Giambattista Basile costituivano già nel 1600 narrazioni trasversali rivolte sia agli adulti delle corti che agli accademici dell'epoca oltre che, s'intende, ai "peccerille" naturali destinatari. La fiaba stessa del resto nasce dall'esigenza dell'adulto affaccendato quale intrattenimento e contrappunto "intellettuale" al proprio lavoro (soprattutto quello domestico e femminile, delegato naturale all'educazione dei bambini). Un punto di vista "popolare" dunque che filtra senza troppi orpelli la vita, investe la magia di sottintesi realistici e psicologici e si permette il lusso di giudicare i "giudicanti" (re e potenti) dal basso.
Un'operazione, quella di Basile, intesa a soddisfare adulti e intellettuali con gli "strumenti" del volgo e l'uso della dimensione infantile e che trova, nel trattamento cinematografico operato da Matteo Garrone con Il racconto dei racconti, un'insolita e moderna superficie riflettente. Perché è indubbio che il regista di Gomorra e Reality, a dispetto dell'etichetta "fantasy" facilmente attribuibile al suo ultimo lavoro, abbia voluto rendere, attraverso il ricorso al racconto infantile e alla metafora fantastica, essenzialmente squarci di un personalissimo universo concettuale. Nulla di inaspettato in verità perché Garrone ci aveva già abituati all'operazione inversa, quella del fantastico innestato nella normalità. Basti pensare ai litorali "alieni" di Gomorra con Scampìa filmata come un universo postbellico, o agli scorci vesuviani e le pescherie di Reality virate in scenari da favola trash tra proiezioni sociali e dissociazioni mentali, senza dimenticare infine la carnalità "fuori dall'ordinario" che investiva i freaks innamorati de L'imbalsamatore e Primo amore, proiezioni mostruose e fantastiche del desiderio.
Nel fantastico "dichiarato" de Il racconto dei racconti, Garrone, come già Basile, imbastisce un discorso coerente con la sua dimensione di cineasta ed intellettuale e, fortunatamente, anche ossequioso nei confronti della materia da cui origina e degli interlocutori della stessa. Perché se re e regine, streghe e creature, madri e figli si muovono lungo i sentieri delle pulsioni imprevedibili o distruttive tipici delle fiabe, non è difficile riconoscere in quei moti psicologici cocci di ossessioni già filmate dal regista.
Fratellanze (anche criminali) insopprimibili, la vanità che tormenta e scarnifica i corpi come già le menti, il gusto per il mostruoso. Un reale che combacia coi cataloghi del fantastico (e viceversa), con l'egoismo a far da nodo propulsivo ai tre racconti e uno sguardo d'insieme quasi "politico" a sorreggere l'apparentemente "disimpegnata" struttura. Perché se il significato precettistico delle novelle rimanda alle lezioni morali (tutti pagano per aver desiderato troppo e l'espiazione avviene soltanto dopo aver estinto il proprio debito col "mostruoso"), quello politico sembra scaturire proprio dalla selezione delle storie.
Tre dimensioni diverse della femminilità corrispondenti a tre momenti cruciali della donna, dall'emancipazione dalla figura paterna al culto della bellezza fino a quel desiderio di maternità per cui distruggere e che distrugge. La donna, grembo da cui nascono le fiabe diviene oggetto di critica da parte delle stesse, in un gioco lucidissimo sospeso fra narrazione classica, simbolismi e una forte autorialità.
Un'operazione, quella compiuta da Garrone, dalla quale il cinema di genere esce egregiamente (si veda l'abilità con cui il regista riesce a mutare scorci storici in suggestivi "altrove" fuori dal tempo o l'uso dell'artigianalità nelle creature fantastiche) e grazie alla quale il fantasy riconquista prepotentemente quella sobrietà formale "scippata" da troppe indigestioni digitali e "paralizzanti" overdose visuali.
A visione ultimata ci si chiede se non sia proprio quella marcatamente autoriale la chiave giusta per riappropriarsi di quei generi cui il cinema italiano non riesce più a dar voce. Ne era stato già un segnale lo spiccato onirismo di Mario Martone ( Il giovane favoloso) capace di bruciare sul nascere ogni tentazione calligrafica tipica del biopic; se ne riceve oggi conferma con Garrone il cui stile dilatato e meditativo riesce a restituire al racconto fantastico quella atemporalità che più gli è congeniale. Perché la vera fiaba resta sempre e solo quella in grado di sospendere il tempo e confondere le dimensioni.
Quella fiaba capace di avvolgere tutti, dal narratore ai peccerille, dai contadini ai potenti, dentro il medesimo mantello fatto con la pelle di una vecchia o di una pulce gigante.