di Cristiano Abbadessa
foto di Luca Volpi
Lo scorso 11 settembre ho assistito a uno spettacolo andato in scena presso la biblioteca comunale alla Chiesa Rossa. Si trattava di una riflessione-commemorazione relativa agli eventi dell’11 settembre 1973, data del golpe militare in Cile, affidata alle parole, alle immagini e alla musica. La rievocazione è stata realizzata, e in buona parte recitata, da Milton Fernandez, che tutti voi conoscete bene se non altro come ideatore del festival della letteratura a Milano che si è svolto ai primi di giugno.
Si è trattato di un percorso che, attraverso i vari linguaggi, ha offerto forti suggestioni, anche per il personale coinvolgimento dell’autore e attore. Naturalmente ha anche seminato spunti di riflessione, perché i fatti accaduti quel giorno procedevano lungo una linea di continuità storica che non può essere circoscritta e ignorata.
Probabilmente in ragione della mia età, devo dire che lo spettacolo, pur curato nella ricerca storica, non ha aggiunto nulla o quasi alle mie personali conoscenze di carattere generale. Appartengo a una generazione (e, ovviamente, a una parte politica) che, sia pure a distanza, ha vissuto intensamente il dramma dei popoli sudamericani sotto il tallone delle dittature, ricorda i colpi di stato più o meno cruenti con le loro conseguenze, conosce il dramma dei desaparecidos e il lungo e faticoso operare di chi ha cercato per anni giustizia. Per giunta, in seguito a eventi anche casuali e scollegati tra loro, ho avuto modo di conoscere di persona diversi esuli e persino alcune della madri di Plaza de Mayo, partecipando insieme a loro a un incontro dedicato appunto ai temi della giustizia, della memoria e delle verità nascoste.
Il fatto che la serata, per me, non avesse quindi un carattere “informativo”, mi ha consentito di apprezzarne ancora di più altri aspetti. E, a parte il forte coinvolgimento emotivo per la rievocazione di un passato in qualche misura condiviso (con tutte le differenze tra chi vive una tragedia e chi ne è spettatore seppur partecipe), la mia attenzione è stata colpita dal rapporto fra la memoria individuale e quella collettiva, fra il mescolarsi di personale e di pubblico nel ripercorrere eventi storici. La rievocazione, infatti, viveva dell’intreccio tra la “storia ufficiale”, quella reale e la quotidianità personale, divagando talora in dettagli soggettivi. E il rapporto, comunque esistente, tra il fatto storico e la vita quotidiana degli individui, magari separati tra loro da un oceano, mi trascinava invariabilmente nel gioco del confronto, nel ritrovare un’emozione comune o nello scoprire un punto di vista diverso (e diverso, magari, non perché relativo a qualcosa che per uno era vicina e per l’altro lontana, ma per una semplice disposizione d’animo, per ragioni anagrafiche, o per altri particolari marginali che portano ciascuna persona a elaborare ricordi differenti e persino a “verità” che si stenta a riconoscere).
È fin troppo evidente che lo scopo di Autodafé, alla sua nascita, era proprio questo. La narrazione attenta alla realtà sociale dell’Italia contemporanea (che non significa necessariamente raccontare l’oggi, ma magari un ieri che ha generato l’oggi) avrebbe dovuto costruire, nell’insieme delle opere e del catalogo, una sorta di testimonianza collettiva su una fase storica del nostro paese. Sulla quale riflettere e confrontarsi nel momento stesso, certo, ma valida anche come lascito storico alle generazioni future. Attenzione: non una sorta di “archivio della memoria”, progetto che già esiste, ma un materiale vivo in cui la realtà sociale e l’evento storico sono filtrati attraverso la soggettività della finzione narrativa.
Un progetto ambizioso, ma secondo me doveroso. E, sempre a mio modo di vedere, un progetto che forse non si può esaurire attraverso una limitata produzione editoriale. Un’idea da riprendere e rielaborare, forse, ma nella quale continuo a credere. E che va magari riadattata alle possibilità, ma non ristretta. Semmai, ampliata e arricchita.