Buona domenica con “Il libertino”, il racconto di Rita Mazzon che ha partecipato al quarto concorso letterario di Villa Petriolo “La gaia mensa”.
Rita Mazzon nasce a Padova, dove risiede.
Dice di sé: “Scrivo racconti e poesie da sempre. Solo da pochi anni partecipo a concorsi letterari ottenendo vari premi sia per quanto riguarda la poesia, anche in dialetto, che il racconto”.
Racconto “Il libertino” di Rita Mazzon
Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Un posto dove mi lascio investire, o meglio ancora vestire dalle sensazioni. Ho bisogno di tutte le sfumature per provare emozioni e vivere nel migliore dei modi.
Per quanto esperimenti tanti sapori dalla vita, ne vado in cerca sempre di nuovi. Sono un superficiale, lo ammetto. Sberciato da qualche sofferenza d’amore, o disattenzione, divoro momenti dolci o in contrapposizione aspri, non trovando un toccasana a questa eccentricità che potrei chiamare volubilità rotonda. Sì, perché io ho un carattere senza spigoli.
Mi piace farmi guardare vestito ed anche nudo. Il tocco della mano poi mi eccita a tal punto da indurre le mie voglie all’assoluto piacere.
Oso chiamarmi portatore di gioia. E’ troppo forse?
Non posso farci niente. Non mi sento in colpa, no!
Amo essere sedotto. Coltello, forchetta o perfino cucchiaio che mi righino pure la pelle! Io vivo di eccitazione riflessa.
Strisciato, rigato, qualche volta deluso per un approccio inconcludente, mi convinco di nuovo a fare incontri, perché mi ritengo artefice del piacere. Io sono un giro di emozione pura. Un circuito di altalenanti sapori.
Sembrano pensieri campati in aria, pompati dalla mia boria?
Non mi costa nulla far vedere i miei ricordi, per assaporare assieme le mie istantanee servite in tanti flash della memoria che ancora trasudano dalla mia pelle.
…Era d’inverno.
Fuori il gelo ruminava gocce di solitudine.
Qui, da me al caldo si infoltivano piacevoli aspettative.
Mi ero attardato nella cucina a sentire il profumo del riso che si lasciava tostare con la cipolla. Il brodo vegetale bolliva nella pentola, mentre i funghi si lasciavano ammorbidire nell’olio bollente con l’aglio ed il prezzemolo.
A poco, a poco, lentamente il brodo annacquava l’anima del riso che veniva vestito dai funghi e si lasciava mantecare poi dal burro e dal grana.
Morbida compostezza. Colore tenue di voluttà indicibile.
Tu mi guardavi, spaesata, un po’ sorpresa. Pudica della mia passione che sospettavi non ti avrebbe dato tregua.
Il risotto di funghi porcini ti fece sorridere. Mettesti in bella mostra tra le labbra curiose e golose la splendida dentatura.
Ti avevo messo a tuo agio. Avevo fatto centro.
Ti osservavo mentre la forchetta scandagliava il riso in cerca di un pezzetto di fungo da assaporare piano. Docile, morbido al palato. La lingua trastullava un piccolo boccone per raffreddare l’emozione troppo intensa. Per far durare più a lungo il sapore e non dimenticarlo. Riso dopo riso, le guance si erano arrossate, al culmine di una gioia sensuale che ti era entrata dentro senza alcuna fatica.
Soffice presagio di eccitazione. Io ero già tuo, tu eri già mia. In un gioco dei sensi in cui non c’erano vincitori, né vinti. Tutto stava in quella comunione di desideri appagati.
Ti ho guardata quando facevi girare la forchetta in cerca di un ultimo chicco.
“Ne vuoi ancora?” Io mi proposi.
Tu mettesti il tovagliolo sulla bocca, scuotendo la testa, come a chiedermi scusa.
Era stata solo una provocazione la mia, lo ammetto, perché sapevo già che eri sazia.
…Era d’estate.
Fuori la calura offuscava tra le gocce i pensieri.
Qui da me al fresco le parole si attardavano. Il ventilatore rinfrescava le idee.
Tu mi guardavi con un sorriso famelico da lupo. Io per te mi sarei fatto docile agnello.
La carne aveva il colore rosso nel perfetto taglio di bistecca. Alta, succosa fiorentina.
Sugo rosso che umettava le labbra come un rossetto luminoso.
Più la tua voracità procedeva, più io mi spogliavo. Così senza ritegno, convinto di farti cosa gradita.
Tu succhiavi sangue ed olio e colava da un orlo della bocca la tua voglia.
Ancora, ne chiedevi ancora…
Fino a che punto avrei appagato la tua temeraria spavalderia?
Tu ti sentivi pronto, anche se era solo il nostro primo appuntamento. Scarnificavi un pezzo di carne ad ogni leccata per enfatizzare un atto che si compresse e si smaterializzò in pochi minuti di ingordigia.
Poi mi buttasti via.
…Era di primavera…Potrei continuare così all’infinito.
Non ho mai requiem, sempre incline a nuove esperienze ed altre ancora…
Oggi sei qui davanti a me. Un po’ distante.
Stai spiluccando un creme karamel controvoglia.
“Che hai? Che cerchi? Non ti eccita, non ti rincuora la mia presenza?”
Mi aggrappo allora a dei ricordi di sapori lontani per addolcire il tuo malumore cui non riesco a porgere un argine sicuro. La tua ruga non si stempera. Anzi diventa collera, ira.
“Io ti ho voluto bene e te ne voglio ancora.”
Le parole infittiscono le cattiverie. Una partita a tennis dove i discorsi si fanno più veloci, convulsi.
“Io ti ho voluto bene e te ne voglio ancora.”
Non produco effetto.
Sei troppo preso dai tuoi folli ragionamenti di gelosie represse.
“Sì, lo so mi hai visto con un altro ed allora? Ora sono con te. Non ti basta?”
Non ascolti ragioni.
Il creme karamel tremulo si spacca, trafitto dalla forchetta che lo penetra. Non si mangia il budino con una forchetta!
“Vieni vicino, facciamo la pace, vuoi?”
L’onda anomala della rabbia afferra un coltello da cucina, posato sulla tavola per una dimenticanza atroce… e scaraventa la sua ira in una violenza scomposta che si contrappone al dolce dessert.
Fiotti di sangue annacquano il caramello che si colora di bugiarda fragola.
Tu continui ad infierire, a schizzare con la lama particelle di una gelosia malata, oltre un confine di un ricordo annebbiato.
Mi sento toccare per un riflesso di vita che fugge e vuol restare. Si aggrappa alla tovaglia e mi porta con sé.
Un grido. Precipito. Un rantolo.
Sono a pezzi sul pavimento. Sangue e pezzi.
Un piatto può amare? Può provocare piacere e può morire?
Io avevo il mio carattere rotondo da conservare per riproporti altri piacevoli sapori. Io…
La sirena dell’autoambulanza mi entra nell’anima.
Anche se dicono che le cose non possiedano spirito.
La scena che appare è macabra e scostante.
Tu in disparte con gli occhi allucinati seduto in un angolo. Imbrattato di uno smarrimento che non ti fa percepire quello che è stato.
Lei distesa a terra intrisa di un amore violento.
Gli infermieri cercano invano di rianimarla, poi stendono sopra di lei un lenzuolo.
Io resto immobile… Sono solo cocci di porcellana bianca che vengono spazzati via.