Il racconto maledetto di una donna

Da Cultura Salentina

7 ottobre 2013 di Vincenzo D'Aurelio

Dell’amico Nino Pensabene, poeta e critico nato a Reggio Calabria nel 1942 e morto qualche giorno addietro, ricordo le nostre lunghissime telefonate. Si era trasferito da molti anni a Copertino dopo aver lasciato, per amore, Roma. Qui, durante un incontro letterario, aveva conosciuto Giulietta Livraghi Verdesca Zain, fine poetessa e antropologa copertinese, innamorandosene perdutamente. Purtroppo un cancro la portò via nel 2007 e la sua perdita aveva lasciato in lui un vuoto incolmabile il cui dolore era affogato dalla sua fede granitica. Con lui parlavo spasso di poesia, degli studi inediti della consorte che Nino, instancabile, cercava di riordinare affinché un giorno potessero essere pubblicati o, come diceva lui, affinché “non andasse persa la memoria di Giulietta”.

Nino parlava sempre di sua moglie esaltandone la bontà tanto che un giorno, sospettando che io pensassi fosse esagerato quanto egli diceva, mi donò le scansioni di una lettera che Giulietta ricevette da Letizia, una sua vecchia amica. In quei giorni Letizia era reclusa nel carcere femminile di Cagliari e quando la lessi rimasi profondamente colpito. Era una storia tristissima ma, al contempo, piena di amore e di disperazione. La storia di una donna vittima e carnefice, una di quelle storie dove le donne sono oggetto di solo desiderio sessuale.

La trascrivo di seguito perché è un racconto molto infelice e lascio integro il testo tranne i nomi dei luoghi e delle persone ritenendo il riserbo indice di rispetto per chi ha ingiustamente sofferto.

A voi che leggete lascio il commento del tutto e un pensiero va a Nino, a quell’amico che nel Salento oltre alle bellezze del paesaggio vedeva “sequenze interminabili di sorrisi umani”.

Cara Giulietta,

trovo tanto difficile chiamarti per nome, anche perché te ne vorrei dare uno diverso grande bello tutto mio, solamente mio e non so quale usare. Naturalmente ti sarai fatta grande anche tu e se ti incontrassi non ti riconoscerei. Ma per me sei sempre la compagna di scuola, anzi l’amichetta con le trecce lunghe lunghe che ogni mattina aspettavo all’angolo di Tracino e che a scuola mi passava il compito sotto il banco e mi dava le cioccolatine e la merenda che mia madre tanto povera e malata non mi poteva dare.

Mi ricordo che quando la signorina andava via ti lasciava al suo posto sulla cattedra per governare la scuola e mi ricordo che un giorno mentre eri là seduta due compagne e precisamente la Maria Ralla e la Gina Cutrimi cominciarono a prendermi in giro, io mi misi a piangere e tu ti arrabbiasti come non facevi mai e sbattendo le mani sul tavolo dicesti alle due disturbatrici: «o lasciate in pace Giuseppina o scendo e vi prendo a schiaffi!» Io sapevo che tu non lo avresti fatto mai, perché non saresti stata mai capace di dare uno schiaffo ma per me era come se lo avessi fatto e mi sintì come se tu fossi mio padre, quel padre che non avevo mai avuto perché sempre ubbriaco che andava e veniva dal manicomio e che ci dava tanto fastidio e tanto dolore.

Ti dico tutto questo per dirti che ti ho voluto sempre tanto bene, che te ne voglio e te ne vorrò anche dopo morta. Ormai non manca molto alla mia morte e se in certi momenti la fine mi spaventa, in altri momenti mi sento felice di finire presto. Ci sono stati momenti che ho pensato di finire volontariamente ma non lò fatto perché ho avuto paura di continuare a stare male anche all’altro mondo. Volevo essere buona, ma sono nata disgraziata e sono stata cattiva anche se contro la mia stessa volontà. Io che piangevo quando vedevo ammazzare una gallina, sono arrivata a uccidere un uomo e questo mi fa paura perché quando ci penso, anche se mi sento male, non riesco a sentirmi pentita e sento che se mi trovassi ancora nelle stesse condizioni, ancora sarei capace di uccidere perché ci sono uomini che sono mostri e meritano la morte.

Sai perché ho ucciso? Non so se quando dopo tanto tempo ti scrissi te lo raccontai. Se non te lo dissi te lo dico adesso.

Quando andai via da Tracino andai a fare la domestica a Vercelli in casa a persone molto ricche ma molto disgraziate perché la moglie aveva due amici e il marito aveva pure lui una bella amica fissa e tante volanti. Avevano anche due bambini e io ero buona con loro cercavo sempre di farmi i fatti miei e loro mi pagavano bene e io tiravo a campare e speravo di mettermi qualche soldo da parte e poi tornare al paese e sposarmi regolarmente. Un giorno però che la signora era fuori e io stavo lavando i piatti il signore vi venne alle spalle e tanto fece che mi usò violenza. Mi ritrovai incinta e me ne accorsi quando già cominciavo a essere grossa. Me ne andai subito con la buona uscita e mi trovai un buco per vivere ma non ebbi il coraggio di abortire. Prendevo lavoro da una sartoria facendo orli alle gonne e colletti alle camicie e quando nacque il bambino piansi di dolore e di gioia perché non avevo nessuno che mi volesse bene ma avevo un bambino al quale potevo volere bene e pensavo che lavorando sarei riuscita a vivere e a farlo vivere discretamente. Non ti dico i sacrifici sempre con il bambino al collo e l’ago in mano. Mi ero imparata a ricamare e ricamavo per le donne più felici di me. Mia madre era morta, mio padre era in manicomio e i miei fratelli che pure avevo cresciuto quando ancora bambina avevo diritto a giocare, non volevano saperne niente di una sorella signorina col figlio. Per quattro anni ce la feci: poi il mio Francesco si ammalò di cuore e non ti dico quello che passai da un ospedale all’altro. Poi mi dissero che stava morendo e che solo se entro poco si operava si poteva salvare. Non ero mai andata a trovare il padre non lo avevo ricattato in nessun modo, anche se gli avevo detto per lettera che era nato il bambino non gli avevo mai chiesto un centesimo. Ci andai piangendo appena seppi che il bambino mi moriva e gli chiesi solo 500.000 lire di anticipo da dare al dottore per l’operazione e gli dissi che dopo avrei pagato io a poco a poco col mio lavoro ma lui mi rispose che se moriva era meglio perché riparava così allo sbaglio che io avevo fatto facendolo nascere. Lo pregai in ginocchio che almeno mi facesse da avallo presso una banca ma non si commosse, anzi mi chiamò «puttana stupida». Me ne uscì dalla direzione della sua industria come impazzita e otto giorni dopo Francesco mi morì mentre me lo tenevo abbracciato.

Gli ultimi soldi che avevo 20.000 lire servirono per la cassa e il funerale e un giglio che pagai duecento lire.

Dovevo pure mangiare e non trovando lavoro di ricamo perché pure gli occhi dopo tanto pianto mi facevano male, trovai lavoro al mercato in un banco di formaggio. Pochi giorni dopo mi trovai improvvisamente davanti quel disgraziato; tutto elegante profumato e sorridente. Cercai di non guardarlo ma lui condotto dal destino mi venne vicino e mi disse: «ora che sei libera se vuoi possiamo anche intendercela». Mi sembrò di impazzire e gli urlai di andarsene e allora presi il coltello che mi serviva per affettare e lo colpì non so quante volte. Mi dissero che era morto quando già ero in carcere ma per la verità non provai pentimento. Avevo tutte le ragioni ma mi condannarono a 27 anni. I primi mesi mi trovai quasi bene mi davano da mangiare e non dovevo pensare all’affitto. Dopo mi prese la disperazione e tentai due volte di ammazzarmi. Non ci riuscì perché non lo volevo veramente e avevo paura di trovarmi male anche dopo morta.

Fu dopo la seconda volta che ti scrissi e quando mi rispondesti fui felice. Sapere che c’era una persona che mi ricordava e mi voleva bene anche se avevo ammazzato mi faceva sentire ricca, felice! Il tuo indirizzo l’avevo avuto da una donna che scriveva ed era stata messa provvisoriamente in carcere per spaccio di droga. Mi raccontò che ti incontrava alle conferenze a Roma e mi disse tante cose belle di te. Mi mandasti prima 30.000 lire e poi ancora 20.000 lire ma il mio debito con te è enorme perché non è fatto di solo denaro merende vestiti compiti già fatti ma di affetto di speranza di protezione tutte quelle cose che ho sempre desiderato e che gli altri non mi volevano dare. Tu sola me le hai date e anche se non ti ho potuto più scrivere ti ho sempre pensata e ti ho sempre benedetta. Posso dire che ho avuto solamente due persone care: mio figlio e tu.

Quando mi hanno detto che forse potevo ottenere la grazia e uscire dieci anni prima ho subito pensato che potevo venire a trovarti e ti avrei abbracciata forte forte e forse mi avresti tenuta con te come cameriera. Ora so che non posso più uscire che fra poco morirò. Non mi dispiace morire perché penso che sono troppo stanca per vivere e ho sofferto troppo. Mi dispiace solo non poterti rivedere da viva ma verrò a trovarti da morta se è vero quello che ci dicono sulla vita dell’anima.

Non ti spaventare per quello che ti dico perché verrò soltanto per benedirti e credo che per quanto ho sofferto ho pagato i peccati e non sarò una delle anime dannate ma una povera anima capita da Dio.

Non ti posso scrivere a lungo ma tu cerca di parlare con Don Antonio, il cappellano del penitenziario, e ti dirà di più e sono certa che comprenderai.

Cara Giulietta, ti lascio un pacchetto come testimonianza d’affetto. I due centri a Filè li ho ricamati io in carcere e quello a punta di ago una mia compagna. Sono una povera cosa per te ma ci metto tutto il mio cuore e tu tienili per mio ricordo.

Ricordami qualche volta nelle tue preghiere e rimani certa che ti ho voluto tanto bene e continuerò a volerti bene anche da morta e a volere bene a tutte le persone che tu ami e che ti amano.

Ti abbraccio ti bacio e ti benedico.

La tua affezionatissima e riconoscente

Letizia Mantecani

22 Maggio 1976

Cagliari, Infermeria Penitenziario Femminile

… Letizia morì il 10 dicembre 1976.


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