Il racconto “Monterosso” di Paola Ricchiuti per augurare buon anno agli amici di DiVINando!

Da Silviamaestrelli

Carissimi amici di DiVINando,
il 2011 si chiude con un altro bel racconto partecipante a "Wine on the road", quinto concorso letterario di Villa Petriolo.
I nostri migliori auguri per un nuovo anno sereno e gioioso.
Carissimi saluti e ...che il viaggio prosegua!
Silvia


Paola Ricchiuti
, di Ponte San Pietro (BG), è laureata in Lettere Classiche, insegnante di Italiano e Latino al Liceo. Ha pubblicato articoli scientifici e alcuni racconti. Ha vinto svariati concorsi letterari nazionali. Appassionata d’arte, ama dipingere e spera sempre di giungere prima o poi ad una “sintesi perfetta” di diverse forme espressive.

Racconto “MONTEROSSO” di Paola Ricchiuti
Arrivai a Castell’Arquato, sui colli piacentini, in una mattina di Marzo: l’aria era luminosa e il paesaggio delle colline della val d’Arda mi parve nitido. Anche il borgo mi parve suggestivo e odoroso in modo incredibile dei secoli trascorsi, ma io cercavo altro. A dire il vero dovevo ricercare dati su un pittore fiammingo della seconda metà del ‘500, tale Calvaert, nato ad Anversa ma vissuto a lungo a Bologna, di cui qualche tela doveva essere proprio a Castell’Arquato, nel museo della Collegiata o anche in una chiesina di una frazione, S. Lorenzo. Comunque i documenti andavano ricercati nell’archivio della chiesa parrocchiale.
Il parroco – Don Augusto - fu gentile, un uomo corpulento dai modi pratici come di chi fosse abituato a ricevere studiosi appassionati dello scrigno di documenti lì deposti che ancora necessitavano di essere pienamente catalogati. Mi indicò la mia postazione di studio e gli scaffali d’archivio. Ebbe anche uno sguardo vagamente ironico. Forse sapeva come sarebbe andata a finire.
Mi misi subito al lavoro ma ci volle del tempo per raccapezzarmi tra pergamene e faldoni. E, come spesso capita nelle ricerche, fui presto incuriosito non dal maestro fiammingo per cui mi ero mosso ma da vari altri documenti che accennavano ai possedimenti cinquecenteschi della Collegiata: terre “vineate” che per clima e suolo favorevoli producevano vini pregiati e ancora si faceva cenno a proibizioni di caccia tra marzo e novembre nei vigneti, per non rovinare il terreno, e poi c’erano divieti di spezzare i salici, i cui rami erano usati per sostenere i tralci delle viti. Troppi ostacoli e impedimenti - addirittura cinquecenteschi - se non si fosse trattato davvero di buon vino. Terra di buon vino dunque.
Calvaert era come sfumato in secondo piano. Ci si mise anche il parroco che – “per farmi fare una pausa” disse - mi volle condurre in una visita al piccolo museo. Si soffermò dinanzi ad una teca di cristallo con dentro una mantellina di velluto cremisi, usurata dal tempo ma evidentemente preziosa.
“ Questa è un dono di papa Paolo III Farnese. L’arciprete del paese ha ricevuto il permesso dal papa stesso d’indossarla nelle festività solenni. Naturalmente questa resta qui; ne abbiamo una copia priva di valore. E sa perché tanto onore e attenzione da una papa Farnese per un piccolo paese come il nostro?”.
“ Non saprei”.
“ Vino. Questione di vino. Nel 1543 papa Paolo III Farnese venne qui in visita al borgo ed ebbe in dono dodici some di buon vino rosso delle colline di Castello. Gli piacque oltre ogni misura. Sempre ne chiese poi rifornimento”.
E Don Augusto, di certo capace di attribuire valenza spirituale anche a sapori decisamente sensoriali, mi citò quello che scrisse il cantiniere stesso di Paolo III:
“ Castell’Arquato fa vini perfettissimi et è grande peccato che tutta quella collina non sia vigna, che qui sono così delicati quanto sia in tutta la Lombardia, tanto rosso, quanto bianchi et qui sua Beatitudine si forniva per il viaggio et anco ne mandava a pigliare anche se fosse a Ferrara et a Bologna”.
Era l’ora giusta e troppa viva la curiosità. Decisi di puntare su un altro tipo di manifestazione artistica, non pittorica, decisi di sperimentare subito piuttosto che di ricercare, magari senza risultati, per chissà quanto.
“ Non mi potrebbe indicare dove poter degustare qualcosa?”
“ Certo. Qui” e lo disse con la naturalezza di chi si aspetta una cosa scontata.
Era ormai tardo pomeriggio. Uscimmo nella piazza della Collegiata, uno spazio bellissimo - chiuso ed aperto insieme - tra il palazzo del Comune, l’abside della chiesa e la rocca imponente. Sotto una piccola loggia era l’enoteca. Il parroco mi introdusse in una cantinetta dalle pareti di pietra; due piccole botti e una miriade di bottiglie dal vetro scuro.
“ Non a stomaco vuoto, però”. Mi furono offerte pasta fritta salata e coppa regina.
Apprezzai senza parole.
“ Adesso è il momento del Monterosso”.
“ Tramandato dal Cinquecento?”
“ Un bianco leggermente frizzante, fresco, senza invecchiamento, giallo un poco dorato, che prende il nome proprio da una collina di qui, oltre l’Arda, dove può catturare il sole in una terra sabbiosa e calcarea. Solo qui una tale miscela di gusto e colore. Assaggi”.
Il calice riposava in una bella frescura serale, in posa di ritratto. Con delicatezza lo sollevai; ebbi un leggero moto circolare del polso e i riflessi si moltiplicarono in luccichii dorati. Mi sporsi sopra il calice e allora vidi il mio stesso volto riflesso prendere un inebriante moto ondoso. Uno stordimento sottile e piacevolissimo mi penetrò attraverso il naso. Era profumo di dolce, di asprigno, molto amabile, che saliva in testa, che attraeva le labbra. Una sorpresa. Sentii il freddo liscio del bordo di vetro e poi un sorso. Non più di un sorso. La lingua, il palato come tramiti compiaciuti. Un calore liquido scivolò giù e mi invase di ramificazioni di colore.
Il parroco sembrò soddisfatto, certo del risultato e di avermi reso speciale la giornata, molto più che se avessi celebrato Calvaert.
“ Da dove viene tanta bontà?” chiesi io.
“ Questo Monterosso ha un segreto: è di corpo così fine e sottile perché oltre ai vitigni più o meno soliti che lo compongono, la Malvasia di Candia, il Moscato bianco, l’Ortrugo, il Trebbiano, il Bervedino, il Sauvignon o lo Chardonnay, qui c’è un vitigno antico, perso e recuperato. Chissà, forse davvero dal Cinquecento. E’ la Santa Maria, uva unicamente dolce, delle colline sopra il paese. E mentre parliamo il vino si è riscaldato appena e ora è ottimo per il dessert”. Mi offrì un tortello dolce ripieno spolverato di zucchero a velo. Disse che erano i dolci di S.Giuseppe, semplici e raffinati.
Sorseggiai di nuovo ed ebbi l’impressione di aver goduto di uno spicchio di santità!

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