“Il ragazzo con la bicicletta” di Jean-Pierre e Luc Dardenne

Creato il 02 giugno 2011 da Cinemaleo

2011: Le Gamin Au Vélo di Jean-Pierre e Luc Dardenne

Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, l’ultimo lavoro dei registi più di una volta acclamati dalla critica e sovente trionfatori delle manifestazioni cinematografiche più accreditate.

Jean-Pierre e Luc Dardenne (già vincitori della Palma d’oro con Rosetta nel 1999 e con L’enfant nel 2005) ci hanno sempre emozionato con storie vere e sincere che ci hanno toccato nel profondo, affrontando problematiche reali e attuali che ci riguardano da vicino e a cui era impossibile rimanere indifferenti.

A tre anni di distanza dal loro ultimo film, il bellissimo e diverso Il matrimonio di Lorna, i registi scelgono di trattare, ancora una volta, il tema dell’infanzia, troppo spesso legata a indifferenza infelicità incomprensione abbandono…, realizzando un’opera accolta con molto favore dagli addetti ai lavori: “Un linguaggio impudente e coraggioso” (MyMovies), “…una inaspettata e inedita complessità narrativa” (Il Corriere della Sera), “…è uno dei loro film più azzeccati” (L’Unità), “Scabro e senza facili patetismi” (Il Giornale), “Vivido, essenziale e lineare nella scrittura, il film è caratterizzato da una regia poco ostentata ma precisa ed efficace” (Movieplayer).

Comingsoon così riassume la storia narrata nel film: “…quella di un 11enne ossessionato da un padre che non lo vuole, e che trova il modo di uscire dall’istituto che lo ospita grazie ad una giovane parrucchiera che lo adotta. Inutile dire che la vita del ragazzino sarà tutt’altro che facile, tra incontri traumatici con il padre, cristi isteriche, rabbia non repressa, l’amicizia pericolosa con un delinquentello della città dove abita”. E’ chiaro che in altre mani una trama del genere sarebbe facilmente finita nel più mieloso dei melodrammi e nella retorica più scontata. Pericolo che naturalmente con i fratelli Dardenne non si corre.

Se la particolare scelta dei registi (il non spiegarci che fine abbia fatto la madre del bambino, perché il padre abbia deciso di abbandonare il figlio, perché la parrucchiera sia così disponibile ad offrire un amore di cui ignoriamo completamente le motivazioni) può risultare interessante e abbastanza originale, è indubitabile che essa desti nello spettatore più di una perplessità, impedendogli soprattutto di partecipare emotivamente, lasciandolo alquanto freddo e distaccato nei confronti di quanto vede accadere sullo schermo. La mancanza di pathos è la caratteristica saliente di un film che si distingue dal resto della produzione dei due fratelli belgi per uno stile meno frenetico e nervoso, per l’utilizzo di una macchina a mano che non «piroetta» come al solito, per la presenza (seppur parca) di una colonna sonora, per una visione meno angosciata e disperata della vita.

La storia di questo bambino dalla rabbia ed energia incredibili, ostinato e determinato oltre ogni dire, (“un racconto di formazione alimentato dal dolore, che nasce da un faticoso viaggio di crescita e formazione”, scrive Francesco Del Grosso) è stata da molti critici interpretata come una moderna fiaba con tutti gli ingredienti del genere (delle 31 funzioni riscontrate da Propp ne abbiamo qui almeno una ventina).

Sarà anche vero, ma è indubbio che mai una fiaba fu più fastidiosa, e a tratti irritante, di questa.

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