“Voglio trovare mio padre”. Scabra ma densa di significati l’affermazione del piccolo Cyril diventa fin da subito l’unico modo per entrare in sintonia con il suo universo esistenziale. Ancora una volta il cinema dei Dardenne si confronta con un essenzialità che non ha bisogno di spiegazioni. Come la fame fisica di Rosetta o il desiderio di integrazione di Lorna anche quello di Cyril è un bisogno (primario) da soddisfare per poter continuare a vivere. Pulsioni che lo schermo traduce costruendo personaggi che si identificano con le proprie azioni e con quello che possiedono. Le peregrinazioni del giovane protagonista alla ricerca del genitore ed il mezzo con cui esse si realizzano, la bicicletta appunto, diventano il modo per raccontare evitando la retorica degli “umiliati ed offesi”. Un film non allineato la cui tensione si riassume nei gesti sincopati di chi non si arrende allo stato delle cose. Ma continuando a lavorare su questa direzione, e pur apportando varianti piccole ma significative (l’uso della colonna musicale ed un finale che induce ad un cauto ottimismo) i registi valloni incominciano a mostrare i limiti di un arte che lavorando di sottrazione dal punto di vista della messa in scena e riducendo l’intreccio ai minimi sindacali finisce per diventare sempre più uguale a se stessa. E se nelle opere precedenti lo sfondo sociale giustificava la sua presenza perché serviva a far capire le genesi della vicenda, in questo caso tanto la campagna illuminata dal sole e la cittadina in cui vivono i personaggi del film sono più che altro luoghi dell’anima mostrati di volta in volta per sottolineare i pesi del cuore - le inquadrature urbane privono lo sguardo di una possibile via di fuga isolando soggetto e spettatore in un'unica dimensione- o le fughe dello spirito, con la carrellata che accompagna la corsa di Cyril e Samantha (una Cecile De France diligentemente laterale in termini di minutaggio ed enfasi recitativa) , la parrucchiera che decide di prendersi cura di lui, lungo un paesaggio bucolico enfatizzato da colori caldi e dalla presenza dell’acqua, elemento purificatore- ricordiamo che Cyril si è appena pentito di un azione ignominiosa anche per la sua giovane età- ed elemento di una fluidità finalmente naturale, quasi a sottolineare un armonia finalmente raggiunta. Così facendo i Dardenne costruiscono una specie di dittatura delle immagini, obbligando lo spettatore a sottomettersi alla nobiltà dei loro intenti e dei loro soggetti. Lo spingono ad accettare l’assenza di una progressione psicologica- di punto in bianco Samantha lascia il fidanzato che la obbliga a decidere tra lui ed il bambino- oppure a prendere per buone certe reazioni – soprattutto quelle che seguono l’incidente che caratterizza la parte conclusiva del film- forzatamente sottotono per cercare di togliere pathos ad un avvenimento che invece ne dovrebbe avere. La giuria di Cannes ha apprezzato, assegnando al film un premio di valore.
“Voglio trovare mio padre”. Scabra ma densa di significati l’affermazione del piccolo Cyril diventa fin da subito l’unico modo per entrare in sintonia con il suo universo esistenziale. Ancora una volta il cinema dei Dardenne si confronta con un essenzialità che non ha bisogno di spiegazioni. Come la fame fisica di Rosetta o il desiderio di integrazione di Lorna anche quello di Cyril è un bisogno (primario) da soddisfare per poter continuare a vivere. Pulsioni che lo schermo traduce costruendo personaggi che si identificano con le proprie azioni e con quello che possiedono. Le peregrinazioni del giovane protagonista alla ricerca del genitore ed il mezzo con cui esse si realizzano, la bicicletta appunto, diventano il modo per raccontare evitando la retorica degli “umiliati ed offesi”. Un film non allineato la cui tensione si riassume nei gesti sincopati di chi non si arrende allo stato delle cose. Ma continuando a lavorare su questa direzione, e pur apportando varianti piccole ma significative (l’uso della colonna musicale ed un finale che induce ad un cauto ottimismo) i registi valloni incominciano a mostrare i limiti di un arte che lavorando di sottrazione dal punto di vista della messa in scena e riducendo l’intreccio ai minimi sindacali finisce per diventare sempre più uguale a se stessa. E se nelle opere precedenti lo sfondo sociale giustificava la sua presenza perché serviva a far capire le genesi della vicenda, in questo caso tanto la campagna illuminata dal sole e la cittadina in cui vivono i personaggi del film sono più che altro luoghi dell’anima mostrati di volta in volta per sottolineare i pesi del cuore - le inquadrature urbane privono lo sguardo di una possibile via di fuga isolando soggetto e spettatore in un'unica dimensione- o le fughe dello spirito, con la carrellata che accompagna la corsa di Cyril e Samantha (una Cecile De France diligentemente laterale in termini di minutaggio ed enfasi recitativa) , la parrucchiera che decide di prendersi cura di lui, lungo un paesaggio bucolico enfatizzato da colori caldi e dalla presenza dell’acqua, elemento purificatore- ricordiamo che Cyril si è appena pentito di un azione ignominiosa anche per la sua giovane età- ed elemento di una fluidità finalmente naturale, quasi a sottolineare un armonia finalmente raggiunta. Così facendo i Dardenne costruiscono una specie di dittatura delle immagini, obbligando lo spettatore a sottomettersi alla nobiltà dei loro intenti e dei loro soggetti. Lo spingono ad accettare l’assenza di una progressione psicologica- di punto in bianco Samantha lascia il fidanzato che la obbliga a decidere tra lui ed il bambino- oppure a prendere per buone certe reazioni – soprattutto quelle che seguono l’incidente che caratterizza la parte conclusiva del film- forzatamente sottotono per cercare di togliere pathos ad un avvenimento che invece ne dovrebbe avere. La giuria di Cannes ha apprezzato, assegnando al film un premio di valore.
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