Il Rambetto

Creato il 03 gennaio 2010 da Lindaluna
Personalmente ho sempre disdegnato il tipo “Rambo”. I muscoli tutti venosi mi fanno un tantino senso. L’occhio sbieco mi disorienta e le turbe mentali causa passato difficile, mi stressano.
Però negli anni ho capito che molti uomini anelano a rassomigliare all’eroe di cui sopra. Non che se ne vadano in giro per montagne a torso nudo, con una fascia rossa in testa ad urlare “non ho fatto niente, non ho fatto niente…”. Questo no. Però in alcune occasioni li vedi scattare con una vena pulsante al collo, determinati a risolvere fisicamente la questione. Peccato che l’antagonista sia assente o non possa sentire. Ma questo per loro è solo un dettaglio.
Uno dei miei primi boyfriend era molto alto e abbastanza grosso, ma aveva l’agilità di un divano e ne era ben consapevole. Una volta gli raccontai di un tizio che aveva scherzato un po’ pesantemente con me e con le mie amiche sull’autobus. Lui, gonfio come una rana e tutto rosso in volto, cominciò a sibilare a denti stretti cosa avrebbe fatto a quel tipo se l’avesse avuto tra le mani.
Quella trasformazione in una specie di Hulk al pomodoro mi sconcertò un pochino, ma in un qualche modo mi sentii più protetta, al sicuro.
La sera successiva lo vidi, il tipo dell’autobus, e lo indicai al mio bisteccone.
“Eccolo, quello dell’autobus”
“Chi?”
“Quello che ha fatto lo scemo con noi, l’altro giorno!”
“Ma chi, quello lì?”
“Proprio lui!”
Il tizio non sembrava più pericoloso di un pinguino. Fatto sta che il mio divano ci pensò un po’su, poi fece un sorrisetto da essere superiore e concluse:
“Se non era perché ho la camicia nuova, lo facevo nero quel nanetto.”
Non che volessi scatenare una rissa, ma santo cielo un po’ di coerenza!
Dopo questo episodio capii come vanno le cose: ogni uomo ha un Rambetto dentro di sé, però in molti casi è come alcuni oggetti in una vetrina: solo per esposizione.
Tempo dopo, mi ritrovai ad assistere ad una scena anche peggiore, protagonisti sempre un ex-emplare ed una camicia. Ma l’antagonista del mio Rambo di turno non era un essere umano, bensì un cancello.
Eravamo in auto con me al volante. Passammo davanti ad una splendida villa disabitata, famosa per i giardini terrazzati che scendevano fin quasi a toccare il mare. La proprietà era cinta da mura piuttosto spesse. L’unico varco era un imponente cancello in ferro battuto.
“Quanto mi piacerebbe scavalcare quel cancello e vedere stì famosi giardini sul mare!”, dissi sognante.
Lui, fulgido e fiero, la buttò lì: “Io l’ho fatto.”
“No! Davvero? Hai scavalcato e sei entrato?”
“Sì, che ci vuole.”
“Ma dai! E com’è dentro?”
“Un paradiso. Sugli alberi si vedono anche gli scoiattoli”.
Inchiodai l’auto e feci un’inversione ad “U” da sequestro patente a vita, terrena e ultraterrena.
“Ma… ma che fai? Faremo tardi…”
“Voglio scavalcare quel cancello!”
Lui provò a dissuadermi, ma io ormai ero in preda alla sindrome di Candy Candy.
Saltai fuori dall’auto e mi appropinquai al mostro di ferro.
Era davvero maestoso, tutto fregi, volute e punte di lancia.
Un passato da piccola scavalcatrice folle mi aveva insegnato che i cancelli più sono lavorati e più sono accessibili. I peggiori sono quelli anonimi a sbarre verticali e parallele.
Un piede qua e una là, una mano lì e un'altra più su ed era fatta. In meno di un minuto ero dall’altra parte a correre lungo bellissimi viali alberati, con il naso in su a cercare gli scoiattoli.
Ad un certo punto mi fermai e mi resi conto che ero…sola!
Che fine aveva fatto quel contaballe!?
Dall’altra parte del cancello come un orango depresso allo zoo.
“Che fai ancora lì? Forza, vieni!”
“No, io l’ho già vista”.
“Avanti! Scavalca”
Più alzavo la mia voce, più si affievoliva la sua.
“Non fa niente, aspetto qui.”
“Ma che cavolo dici? Muoviti!”
“E’ che mi sembra un po’ alto…”
”Ma se l’hai già fatto, dai!”
“Sì, ma ero più allenato”
???
“Ma dai non vedi che io ci ho messo un attimo!”
Lui cominciò a sentire odore di figuraccia. Quindi sospirando si avvicinò alle sbarre.
Già dalla prima presa mi accorsi che quell’invertebrato non aveva mai scavalcato nemmeno il cancelletto di un pollaio.
Le dita erano molli e tremolanti.
“Ma mica c’avrai paura?”
“Macchè, ti ho detto che l’ho già fatto!”
“E allora vai!”
Con entrambe le mani disperatamente aggrappate alle sbarre, cominciò a pensare dove piazzare il piede destro. Niente da fare. Proprio non riusciva a sollevarsi. Decisi di aiutarlo, ma ormai nel mio videogioco mentale aveva già perso una vita. Non perché fosse legnoso come una sedia, poveraccio, ma perché a trent’anni suonati bisognerebbe smetterla con gli strambotti. Superflui, per di più.
“Avanti, metti il piede qui”.
Lui eseguì e si tirò su. Non era nemmeno a trenta centimetri da terra e tremava come un cellulare con vibrazione. Lo guidai in tutta la manovra finché non arrivò in cima e riuscì passare con una gamba dall’altra parte del cancello.
“E’ quasi fatta, su, adesso metti l’altro piede qui.”
Forse calcolai male le dimensioni perché questa volta il suo 44 si incastrò tra le due sbarre. Però a quel punto la distanza da terra era molto più alta e soprattutto il miserabile c’aveva una lancia di ferro che puntava minacciosamente verso le sue parti basse.
Provai a disincagliarlo, macchè. Quella dannata scarpa non voleva saperne di venir via.
Pareva proprio un manichino scagliato su quella cancellata da una tromba d’aria.
Cominciai a ridere prima in sordina, poi sempre più forte, finché dovetti sembrare una sadica pazza. Lui non aveva nemmeno la forza di dirlo, ma sono certa che in quel momento mi odiò con tutte le sue forze.
“Accidenti a te. E ora?”
“Uauauauauah!”
“Smettila di ridere cretina e aiutami!”
“Ma come hai fatto l’altra volta?”
“Quale volta?”
“Quella degli scoiattoli”
“Ma quali scoiattoli del cazzo… Fammi scendere di qui!!!”
“Aha, l’avevo capito che non era vero.”
“Fammi scendere ho detto!”
Mi guardai attorno e vidi un mucchio di vecchie tegole. Ne presi una e cominciai a dare colpi sulla scarpa per farla venir via.
“Ahia, ma sei pazza, mi fai male!”
Quella vocetta isterica ammazzò per sempre il Rambo sparafrottole di dieci minuti prima.
“Aò, sta scarpa non si muove, adesso te la slaccio. Cerca di sfilare il piede fuori”.
“Noooo!”
“Che no e no? Vuoi restare qui a vita?”
“Vabbè dai. Però mi sembra che ho il calzino un po’ bucato”
“Ma figurati!”
Figurati un corno. Hai perso un'altra vita, impedito.
Liberato dalla morsa, l’ex-emplare scavalcò verso l’esterno del cancello.
“Ma che fai? Rinunci?”
“Sì che rinuncio. Stavo per rimetterci gli zebedei per starti dietro!”
“Bah. Fai come vuoi, io faccio un giro. Aspettami in auto.”
“Dove vai?! Aiutami ad arrivare fin giù!”
“Ancora? Che pena che sei.”
“Vabbè vaffanculo, faccio da solo, tu vai a farti questo fottuto giro!”.
Quando tornai al cancello il campione non c’era più. In compenso c’era ancora la sua scarpa incastrata tra le sbarre e un brandello di camicia che pendeva tristemente da una punta.
Recuperai la scarpa ed entrai in auto.
Lui mi guardò truce e giuro che mi disse proprio così:
“Adesso a mia madre glie lo spieghi tu come mi si è strappata la camicia.”
Trent’anni suonati, signori.
Terza vita persa, game over.

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