“Il re del vento“. Valerio Manfredi, il protagonista, medico che vive e lavora a Foggia, esercita la professione con dedizione, nonostante le intemperanze dei colleghi e dei pazienti ricoverati. Inoltre visita privatamente nel proprio ambulatorio, per il quale è alla ricerca di un’infermiera che possa aiutarlo nel lavoro.
Durante il soggiorno, Valerio si vede costretto a soccorrere il bibliotecario della locale biblioteca, colpito da una crisi cardiaca, trasferito poi con l’eliambulanza presso l’ospedale di Foggia. Suo figlio Roberto, che si scoprirà in seguito avere sempre avuto un rapporto non facile con il padre, confida al maresciallo, presente Valerio, la scomparsa del mazzo di chiavi in cui il padre teneva anche quelle di casa, oltre a quelle della biblioteca. Nei giorni successivi Valerio farà visita al bibliotecario in ospedale, e da lui verrà a sapere che il giorno del malore il bibliotecario stesso aveva avuto un incontro con una persona, della quale al momento preferisce non parlare.
Intanto il rapporto tra Valerio e Laura si trasforma in una storia d’amore, con tutte le paure che questa scatena nell’animo del medico a causa della recente cocente delusione.
Una triste mattina Valerio torna a trovare il D’Airola in cardiologia, recando con sé il De Brevitate Vitae di Seneca da prestargli, ma gli viene riferito dall’infermiere del reparto che il bibliotecario è deceduto durante la notte per una nuova e letale crisi cardiaca. Per voce dello stesso infermiere, il D’Airola ha lasciato un messaggio per Valerio: cerca il basilisco.
Il medico non sa da che parte cominciare e a complicare le cose arriva una richiesta, tramite il maresciallo, da parte del figlio del bibliotecario, Roberto, di interpretare un documento trovato in casa del defunto. Ad una prima sommaria lettura il documento, apparentemente molto antico, seppur ricopiato e stampato al computer, sembrerebbe contenere notizie interessanti. Valerio ritiene utile l’aiuto di un vecchio amico, Alberico Miscani, curatore del castello svevo di Manfredonia, dove si reca con Laura. È lui che traduce il documento: vi si parla di un “tesoro” messo in salvo in fretta e furia dall’antica città di Montecorvino, in procinto di cadere sotto l’assedio del re normanno Ruggero II, nel 1137. Inoltre è citata la figura del duca Rainulfo Drengot, che aveva conteso al cognato, re Ruggero II appunto, il controllo della Capitanata e comunque del sud peninsulare, che Ruggero voleva inglobare nel Regno di Sicilia.
Anche una visita alla biblioteca, complice il maresciallo, dove Valerio spulcia tra i libri ivi custoditi, non aiuta la ricerca. Messe da parte queste occupazioni, Laura e Valerio si concedono un periodo di vacanza nel Salento. Lì, sotto la calura de lu sule lu mare lu jentu, sfogliando dei libri che il nostro aveva acquistato a Castel del Monte, Valerio scopre il basilisco essere l’emblema della città di Melfi. Finite le vacanze, decide di tornare alla biblioteca, per ulteriori ricerche. Così arriva alla scoperta, all’interno di un volume con effigiata sulla copertina l’emblema di Melfi, di una lettera scritta dallo stesso D’Airola, nella quale si fa menzione dell’esistenza di un passaggio segreto che conduce ad una cripta sotterranea proprio sotto la struttura della biblioteca.
Valerio, impossessatosi delle chiavi custodite dal maresciallo, vi si reca la sera stessa con Laura e, lavorando di ginocchia e di nocche, scopre il passaggio. Nella cripta rinviene un antico libro che tratta della storia dei normanni in Capitanata. L’autore è nientemeno che Gualtiero di Pagliara, che era stato Cancelliere del Regno di Sicilia al tempo di un fanciullo Federico II. Valerio porta via il libro, d’accordo con Laura, e insieme convengono di non farne partecipe il maresciallo.
Rientrati a Foggia, Valerio dà una prima occhiata al libro, al cui interno è riportato uno strano arzigogolo di apparente difficile interpretazione. Valerio cerca di carpirne il segreto, ma invano. Inoltre il nostro individua la parte mancante del documento ricevuto da Roberto, quello che era stato mostrato al maestro Miscani: c’è scritto che il “tesoro” da mettere in salvo da Montecorvino assediata in realtà era una persona, il figlio stesso del duca Rainulfo, Roberto Drengot. Poi, mentre è a pranzo con Laura, ricevono la telefonata del maresciallo che li mette al corrente della scomparsa e del successivo ritrovamento del farmacista del paese, in stato di incoscienza all’interno della biblioteca. Quindi ci deve essere una relazione con la morte del D’Airola.
Tornato a Foggia, Valerio si reca nella sede di una Casa Editrice che sa essere interessata a pubblicazioni storiche. E lì ottiene la conferma del contatto da loro avuto col D’Airola. D’accordo con Roberto, il libro viene avviato alla pubblicazione.
Una mattina poi Valerio riceve, in ospedale, la visita di uno strano individuo, che verosimilmente è lo stesso ad avere aggredito il farmacista e ad aver provocato il malore di Giovanni D’Airola all’inizio della storia. Questi cerca di intimidire Valerio e al contempo, indirettamente, spera di capire che fine abbia fatto il vecchio libro e, quando Valerio lo informa della prossima pubblicazione, esce di scena visibilmente irritato per lo smacco subito.
Nei giorni successivi, riprendendo in mano il libro di Gualtiero di Pagliara, Valerio scopre il significato dell’arzigogolo. In esso è celato un punto preciso del Tavoliere, lì dove si trovano i ruderi di una vecchia torre normanna, che anticamente aveva fatto struttura della città di Montecorvino… Di qui lo scioglimento dell’enigma.
Il libro di Domenico D’Errico è un testo intelligente in cui la genesi e lo svolgimento di una storia d’amore si intreccia abilmente con un giallo medioevale, in un incontro fervido tra passato e presente. Lo scrittore è un esperto di storia medioevale e riesce a ricreare con veridicità storica gli ambienti, le atmosfere, gli eventi della storia del Sud dell’Italia, contesa tra Arabi, Normanni e Svevi.
Particolarmente felici le analessi, in cui l’autore ripercorre la sua biografia tra Lucera, Roma, Foggia, dove si scopre con tutta la sensibilità del suo animo, dando luogo a squarci altamente lirici. Viene così ricreata la sua esperienza di studente, con tutto il rimpianto per quel mondo in parte perso, ma recuperato attraverso il ricordo; il soggiorno a Roma, quando era studente di Medicina presso l’Università La Sapienza, gli entusiasmi di vivere nella città caput mundi, in una dimensione che solo Roma sa conferire.
Il rapporto con il mondo antico e moderno viene sviscerato e ampio spazio occupano le relazioni umane, quelle che lo legano al mondo dell’infanzia, della giovinezza e della maturità, in cui svolge la professione di medico con dedizione e passione, nonostante i rapporti non siano sempre soddisfacenti e vi siano evidenti disfunzioni nella Sanità. Forte è l’attaccamento ai libri; credo che Domenico D’Errico sia un grande lettore, oltre che uno straordinario scrittore, perché i libri sono i depositari della nostra memoria e platonicamente l’Essere coincide col ricordare. In sintesi tutto il mio plauso va ad un libro, la cui trama abilmente intreccia i fili della narrazione di avvenimenti acutamente scandagliati e intessuti e artisticamente disegnati da un’arte narrativa non comune, specie in questo mondo in cui tutti si improvvisano scrittori.
D’Errico è uno scrittore vero, non solo perché sa narrare , ma perché vero è il suo sentimento di legame alla sua terra, dove il vero padrone è il vento in tutte le sue manifestazioni: lugubre, nei ricordi del protagonista che lo associa alla morte in reparto, quando era alla scuola di specializzazione a Roma, di un ragazzo per meningite, triste quando soffia attraverso la finestra della torre, in occasione del ritrovamento della tomba di Rainulfo, e delicato e leggero, alla fine, dolce melodia tra le case del paese di Santa Lucia, al termine di tutta la vicenda.
Written by Giovanna Albi