Ci sono formule e parole che perfino il mio pc è proprio stufo stufo di scrivere sotto dettatura. Una di queste è “teatrino della politica” e oggi apparentemente lo dovrei obbligare invece a impiegarla per descrivere quello scontro tra vecchi e impolverati capitan fracassa che menano fendenti con gli spadoni di legno barcollando sulle assi tarlate del palcoscenico della Sette.
Ma ieri non c’era politica, sostituita semmai dall’avanspettacolo con un impari emulo di Peppino che spolvera con il fazzoletto inamidato la sedia dove è stato seduto Travaglio, impari emulo di Montanelli, nel berciare scomposto di Santoro, che non ce la fa a emulare nessuno quando candidamente ammette di aver concordato regole con il nemico/amico, ambedue interessati a audience e reclame elettorali e non.
E non c’era nemmeno televisione, regredita appunto a teatro parrocchiale, dove le uniche immagini non superflue erano appunto costituite dai gesti plateali e scomposti di marionette animate da un burattinaio poco pratico: finti abbracci, tenetemi che lo meno, strette di mano rimaste a mezz’aria, giri di sedie e fughe simulate.
E non c’era il giornalismo, o almeno quello che vorremmo, quello che incuriosisce e informa, che non fa una trattativa per omettere, che non sceglie la visibilità rispetto alla reputazione, che non si infiacchisce per autoconservarsi proprio come la politica.
Faccio autocritica: la politica invece c’era, o almeno quello che è rimasto, la scrematura del peggio, l’unto tossico di quella emulsione di slogan, formule gergali, stereotipi cui è stata ridotta, ormai tristemente bipartisan, ma che aveva da parte di un leader restituito al ruolo proprio da chi per venti anni ha omesso di mirare al cuore del conflitto di interessi, delle correità criminali, della personalizzazione di tutto anche della costituzione e che oggi aveva a malincuore passato il testimone a governi altrettanto sprezzanti di regole e del bene comune.
Si, si è parlato di politica quando Berlusconi ha sciorinato il suo repertorio golpista, la sua litania contro le procedure democratiche, il suo mantra contro lacci e laccioli che imprigionano l’impresa e la libera iniziativa, che si vorrebbe tanto libera da renderci definitivamente schiavi, la sua lagna di despota lasciato solo come tutti i dittatori compresi quelli ridicoli.
Beh, non si lagni, non è poi solo come dice, se sul suo cammino continua a trovare qualche spalla pronta a ogni parte in commedia, pardon, in tragedia, la nostra.