Il suono dei miei
passi era attutito da una leggera nebbia mattutina, grigia e umida, ma non così fitta da impedirmi la vista. Seguivo a testa bassa il ritmo regolare dei miei passi lungo la
stradina stretta e solitaria che costeggiava i verdi e muscosi canali sul cui greto, sassoso e vuoto, occhieggiavano splendide
conchiglie di fiume, le cui valve aperte mostravano la lucida madreperla.
Era freddo, e certo rimanere al calduccio era stata una forte tentazione, ma dovevo camminare, e quella
solitudine agreste consolava in parte il disagio stagionale.
Sapevo inconsciamente dove ero diretta, ma preferivo non prestarvi attenzione, e mi aiutavo in questo sbirciando i
casolari lungo la strada, dove razzolanti e grasse galline, si riposavano appollaiate sui pioli di una scala che metteva in comunicazione la fredda terra con il fienile. Ogni tanto un solitario e dondolante papero mi accompagnava per qualche tratto.
Svoltai a destra e continuai la mai marcetta, era la strada che in primavera avevo percorso in
bici, una di quelle biciclettine fuori moda, un po' gracchiante, con le ruotine piccole, che nulla aveva a che fare con le moderne mountainbikes e i loro cambi sequenziali, una biciclettina su cui puoi pedalare con i jeans e le scarpe da ginnastica senza abbigliamento tecno e integratori. Mi accorsi che stavo sorridendo e mi compiacqui. Istintivamente rallentai, e alzai la testa, che fino a quel momento guardava imperterrita la stradina e i piedi: eccolo!
Allargai le
mani e le tesi verso le
volute delle molteplici
braccia del verde
Briareo dormiente: il mio amico
tiglio. Andai ad abbracciare il suo enorme e nodoso
tronco, rifugio di piccole e indifese creature, e vi appoggiai l'orecchio per sentire il suo
respiro. Mi accostai, chiusi gli occhi e lasciai andare a lui i miei
pensieri, nel cui turbinio colsi i versi di una filastrocca che gli recitai:
"
Bel vitellino accucciati,
sta' con la tua pastora
e non l'abbandonare,
come quel giovin principe
che la sua dolce sposa,
sotto il frondoso tiglio
lasciato ha lagrimosa"
Feci fluire tutte le mie
sensazioni, e mi guardai intorno: la casa del mio amico
tiglio aveva delle particolarità cui non avevo fatto gran caso prima. Non tanto il bel prato, letto delle sue profonde radici, ma la
casa abbandonata a poca distanza da lui, sul tetto della quale spuntava in ferro battuto, l'orizzontale falce della
luna araba. Lì vicino in pietra grigia, un mezza
piramide su piedi di leone. Baluardo segreto di un moro in fuga in una campagna totalmente estranea ai fasti dell'Alhambra?
Solo la secolare presenza del mio amico
tiglio ne custodiva la storia, ma non feci domande, mi accontentai della sua benevola accoglienza. Indugiai ancora un poco, indi presi congedo e, ripresi i miei passi, tornai.