il retino di Ostia (fine di un amore)

Da Bellocks
Sfioro la guancia con il palmo della mano destra e con gli aculei delle unghie mangiate ne rigo con cura la pelle. Lo faccio appena due minuti prima della partenza, tanto per darti ancora un buon motivo per continuare a cercarmi. Lo sai che non ho mai sopportato le scadenze, soprattutto quelle imposte, quelle che ti colgono in costante debito d’ossigeno, manco fossero bollette del metano. Vesto i consueti panni del disoccupato, impreco con forza la liquidazione, mi muovo con approssimazione bestemmiandoti contro quei ventiquattro minuti di pausa pranzo che oggi sono stato costretto a concederti.
Non ho più bisogno di dedicarti altro tempo, scapicollarmi come un forsennato in perenne recupero su quei cinque minuti di ritardo. Eppure eccomi qui, incastrato nel traffico dei giorni feriali: vengo a dirti che è finita, vengo a onorare il modesto traguardo dei nostri affetti nell’impersonale ecosistema ferroviario.
La stazione resta pur sempre il miglior luogo per farla finita: ci sono orari stampati su biglietti chilometrici che sanno bene come tirarti fuori dall’imbarazzo di una perdita. E’ un carico d’indifferenza che non riesci a gestire per mancanza di tempo, un epilogo marcato dalla voce invadente dello speaker che comunica a intervalli regolari: “è in partenza sul binario...”. E’ una voce molesta. E una voce puntuale. Come se qualcuno se ne stesse nascosto da qualche parte sotto il colonnato a notificare la fine della tua, di storia.
Le persone ti osservano, le persone nutrono un certo interesse per il corto circuito dei fatti altrui. E tutti i binari di questo mondo non aggiungono poi molto alla destinazione di questa storia. In fondo, per quel che ci resta, un treno vale l’altro. Ed è inutile dilungarsi oltre i convenevoli del congedo quando sappiamo bene tutti e due che puntualmente, o più o meno in ritardo, il nostro treno partirà comunque in giornata.
Stento, nel bisogno di aggrapparmi forte al tessuto connettivo delle tue certezze. Ho studiato con cura ogni parte del tuo corpo, rivoltato e concimato ogni singola emozione. Ma le certezze di cui parlo adesso, le stesse certezze che vedo ora inciampare tra i passi svelti dei pendolari di ritorno, sono un baco che fa la spola tra la polpa e la scorza, un movimento di vita pregresso che non ha più crepe di cielo da riservarmi. Tra poco verranno i vermi a scavare in quell’ultimo angolo di verginità che riservavo alla prudenza dei nostri giorni, e solo allora saprò - con ributtante evidenza - di non avere più polpa da destinarmi.
Siamo alla frutta, amore mio: ce lo dicono i vermi.
Nel trambusto dei cavalloni che atterrano stanchi morti sulla spiaggia di Ostia, ci ritrovo appena due telline e qualche tracina da disincagliare. L’ultima volta che ho stretto le tue mani è stata in quella notte di ferragosto sul litorale laziale, in quello stabilimento a pochi passi dall’idroscalo. Per sapere cosa volesse dire pescare usavo un retino dalle maglie grosse, lo stesso che ai mercati generali mi avevano indicato come setaccio per le vongole più veraci. Separavo il mare dalla sabbia, muovendomi in anticipo sulla marea.
Impigliata tra le maglie della rete metallica, proprio al di sotto della molla del bocchettone, c’ho trovato anche te, aggrappata come un polpo alla ferraglia arrugginita del tuo mondo sommerso. Non ho sostato nemmeno un giorno tra i fondali sabbiosi delle tue certezze; ti ho estratta dal mucchio con la carne ancora fresca, intatta, le caviglie incrostate di salsedine e i capelli ancora intrecciati nell’alga. Non ti ho destinata ai banchi del mercato, né al freddo siderale del surgelatore di famiglia: ma ti ho lasciata nel retino per darti il tempo di marcire in fretta, assieme ai pesci migliori.
Le certezze hanno la consistenza della polvere condensata tra le intercapedini del naso, il moccio pesante del calcestruzzo di quando imbianchi le pareti livide del tuo monolocale. L’unica certezza che mi rimbocca ancora le coperte è lo sguardo di mio padre due minuti prima dell’infarto, l’unica partenza che mi ha reso propriamente libero e capace di aprire le imposte senza opporre resistenza al peso di una perdita. La stessa certezza che tra poco ci smisterà come pacchi da crociera nel frenetico via vai della planimetria ferroviaria, che è poi la topologia di una perdita. Strane certe associazioni d’idee, certe coincidenze e modi di intercettare le cose, non trovi?
Mi ricordo del molo di Villa Clerici, di quando siamo partiti con il primo bus del Cotral e siamo rimasti per due giorni a fare l’amore nella pineta di Lavinio. Allora ero io lo stronzo che schifava la stabilità degli affetti, l’uomo da conquistare e da convincere con la caparbia sicurezza dei tuoi baci.
- Facciamo presto - dicevi, frugando nella cassetta della pesca.
- Dai che stanotte c’è la luna giusta! Prendi il retino...
E prendevo il retino, e lo ripulivo con la cura di una levatrice.
- Dai che stanotte andiamo a pescare i gronchi giù al molo!
Chissà perché è solo nell’inizio e nella fine delle cose che sappiamo collocare nitidamente un’emozione. Io per esempio mi ricordo solo adesso del retino di Ostia e dei giorni trascorsi sul litorale laziale nell’estate del nostro incontro. A distanza di anni mi ritrovo a frugare in un retino di metallo corroso per recuperare appena un frammento di quel giorno. E nonostante tutta la bellezza di quel principio, gli album fotografici e i ricordi da rispolverare come fossero istantanee del giorno dopo, incrociare gli occhi severi del controllore e impattare con lo sguardo in fondo, oltre la fine della banchina.
E’ nel contorno delle cose che ci si perde.
Mi guarderò attorno come un fuggitivo e cercherò una via di fuga nel vapore diffuso del metrò. Ti lascerò sola ad aspettare il tassì in Piazza Esedra senza più domandarmi cosa ne sarà di noi o quale mano sudata frugherà mai tra le nostre cose. Le persone che partono hanno un perdita da occultare, un omicidio preventivato da nascondere nel doppio fondo della valigia. La felicità è un oggetto da occultare, un pezzo di comprensione da deportare lontano, altrove da tutto ma soprattutto da noi stessi; e io vorrei dirti che ho smesso da un bel pezzo di fare il becchino.
Acquisto due biglietti all’edicola del Cambio e ti lascio sola a sfogliare il giornale. Sosto solo un attimo sotto gli orari delle partenze per lasciarti appena l’imbarazzo di una perdita. Strizzo l’occhio al mestiere del controllore, butto la cicca nel portaombrelli della prima classe. Gli orari dei treni sono poco più che numeri da giocarsi all’enalotto, il tabellone di Roma Termini poco più di un cruciverba da riempire con il vuoto dei progetti. Ti lascio sola a grattare lo scorrimano del binario 22 mentre monti sul primo treno dimenticandoti di obliterare. E ti sfioro con la coda dell’occhio, un attimo prima del fischio.
Vedrai, farò un buon lavoro di noi.
Non guardami ora con quegli occhi e non provare nemmeno per un istante a buttarmi le braccia al collo. Ti prego, non provarci mai più.
Sto truffando il sogno per pochi spiccioli di tempo libero, possibile che non lo vedi? Ti regalo il biglietto migliore, un posto in prima classe lontano dal fetore del vagone merci. Investo gli ultimi soldi nel banco prova del nostro amore e l’obiettivo è sempre lo stesso: spedirti il più possibile lontano, al riparo dai sensi di colpa.
Che ingenua che sei, confondere l’amore con l’elemosina dei giorni... Non lo vedi che ti tiro per il collo, che costringo le tue aspettative sull’oro colato dei miei buoni propositi, che t’invito nella dimora dei miei affetti con il cruccio di esibirti all’impietosa critica dei parenti, non lo vedi? Pensi che basti conquistarsi il sorriso della suocera per poter camminare spedita su quei quattro centimetri del mio prato inglese? Il diritto di calpestare i miei giorni migliori e di penetrare nella mia vita con l’ingombro di un caterpillar, nessuno te l’ha dato: la tua carne è così bianca che potrei imbrattarla con l’unghia sporca della mano destra.
E non riesci nemmeno a leggere un segno di inadeguatezza sul mio viso, sui quei quattro silenzi ormai stanchi di procurarsi un alibi. Piuttosto ricordati di ieri, di come serravo il cappio attorno all’amo. E non scordartelo mai più.
La mia è solo un’obiezione di coscienza di fronte alla morte, spicciolo volontariato nel deserto arido delle partenze. E la nostra, di partenza, non aggiunge poi molto al bilancio dei giorni. In fondo, chi vuoi che se ne freghi di noi? Piuttosto spiegami come intendevi procedere nella manodopera degli affetti, in tutta quell’amabile familiarità che manipolavo per poco più di due paste nelle domeniche pomeriggio a pranzo dai tuoi. E dopo avermi messo all’ingrasso come un vitello da destinare ai fasti di Pasqua, dopo aver condiviso il sudore e l’amarezza di questo giorno di afa, spiegami dove trovi il coraggio per dirmi: “a presto, amore mio...”.
Per quanto mi riguarda, ho solo paura di non essere più in grado di mollare la presa, di aver compresso la tua gioia come un articolo sportivo nel codice a barre della mia identità. Le certezze sono caccole che fai fatica a strapparti di dosso, copioso sudore stratificato sulla maglietta dei tuoi giorni migliori. E oggi, per la seconda volta, sento tutta la comprensione di quell’incontro, tutta la complicità che non ho mai assolto, completa, puntuale.
Odore guasto del nostro amore.
E adesso che tutto tace e che mi ritrovo qui a guardare il treno inoltrarsi oltre i muri fradici della stazione centrale, penso che tutta la mia vita non è stata altro che un indugiare oltre il semaforo rosso di una partenza, in pochi sbuffi di vapore e in qualche centimetro di addio.
Guardami, sono qui, immobile, sotto l’ora esatta del binario, a pochi passi dall’obliteratrice meccanica. Guardami adesso, mentre mi frugo nelle tasche, ora che non so più come trattenere le unghie e mi accendo una sigaretta con la calcolata sicurezza di chi è abituato a guardarsi da lontano, manco fosse da sempre sotto il grandangolo della macchina da presa. E muoviti perdio, guardami ora, guarda come tentennano queste gambe, non vedi che la sigaretta trema, la testa oscilla, la schiena è piegata, non vedi che le lacrime si separano per filtrazione, il sale è cristallizzato sugli zigomi e l’acqua sparpagliata sui binari? Non vedi che non trovo più le chiavi della macchina, che le cerco dappertutto e non le trovo perdio, che urto contro i pendolari di ritorno dalla zona industriale, contro il passeggino della mamma, contro il tossico che chiede gli spicci sotto i portici delle sale d’aspetto, contro gli sguardi indiscreti delle adolescenti e quelli interrogativi dei direttori di filiale, contro le puttane che fanno la spola tra Roma Termini e la Tiburtina, contro gli studenti di ritorno dalle vacanze estive, contro il vociare rauco del robivecchi e quello della vecchietta con la busta della spesa, contro il ringhiare dei pastori tedeschi della guardia di finanza che mi annusano il culo, contro il cinismo del metrò e la superficialità degli spazi aperti, contro l’attraversamento delle strisce pedonali e contro il clacson dell’automobile che avverto nitidamente un attimo prima dell’urto.
E adesso che corro a sirene spiegate verso il policlinico, adesso che tutto il mondo si mette da parte lasciandoci il passo, il telefono poggiato sul manicotto della barella squilla a vuoto, violentando gli ultimi istanti di questa storia. Non riesco a muovere il braccio, non posso nemmeno allungare la mano per sfiorare con l’unghia il tasto verde della rubrica telefonica. Vorrei trovare la tua mano, stringerla, premere con i polpastrelli sul palmo della tua mano destra, sentirmi in diritto di non mollare mai più la presa. Non è così che doveva andare, amore mio. Non era così che me l’ero immaginata.
L’infermiere non sa che fare, mi guarda con la comprensione di chi ha capito. Ha le mani impegnate sul respiratore e gli occhi lucidi di chi non sa controllare un’emozione. Forse risponderà prima o poi, se riuscirà a trovare il coraggio di staccare la mano dalla cannula rossa della flebo. E’ un novizio del pronto soccorso, uno specializzando in medicina generale capitato per caso tra gli orari scomodi del turno di notte. Già me lo vedo col camicie bianco dell’ambulatorio prescrivere antibiotici ai vecchietti di paese: “Si riguardi, mi raccomando... Grazie dottò! Saluti a casa!”. I nostri sguardi s’incontrano tra una buca e l’altra del manto stradale nell’imbarazzante silenzio dell’abitacolo; inarca le sopracciglia, trema la sua presa sulla superficie del tampone, sbaglia nell’applicare le ventose della rianimazione cardiopolmonare (RCP). E’ il dolore degli altri che è imbarazzante: e il novizio di turno me lo comunica con tutto l’impaccio del suo prodigarsi. La verità è che non vediamo l’ora di toglierci gli occhi di dosso.
La sirena abbaia ai passanti, il galleggiante del respiratore s’immerge come un grissino sotto la spinta pneumatica delle contrazioni. Volgo lo sguardo sul battiscopa grigio dell’ospedale, non sento più il bisogno di aggiungere altro. E’ andata come doveva andare, come non te l’aspetti.
E ci scappa pure un sorriso.
Restiamo soli, avvolti nel silenzio ovattato del reparto. Ci portano via.
Scivoliamo lungo corridoi impregnati di formalina e soffitti al neon che producono appena una fievole luce bluastra, discreta, impersonale. Torno a sguazzare nel tuo mondo, torno in quell’acquario ordinato di pesciolini rossi e conchiglie semisommerse che mi avevi con tanta dedizione promesso. Mi muovo come un pesce su fondali che conosco a memoria, non ho più paura di avventurarmi come un polipo nel buio pesto delle insenature. Non sento più il dolore, il dolore ha cessato le sue repentine incursioni sulla tempia destra, le gambe sono immobili e il cuore ha smesso di allenarsi con il contatto della tua epidermide da almeno 15 minuti. Ed è la prima volta che mi succede da quando ti conosco.
E mentre l’odore acre del fenolo irrompe come una brezza nella saletta sterile del pronto soccorso, l’Inter vince il suo diciassettesimo scudetto, la crisi economica si aggrava, le Borse toccano i minimi storici, il petrolio schizza a 300 dollari al barile trasformando le pompe di benzina in gioiellerie, il ministro Gelmini chiude l'anno scolastico bocciando tutti d'ufficio per cattiva condotta, si celebrano le elezioni europee, il Pdl conquista il 35,26% dei consensi, il Pd il 23,13, Lega Nord 10,20, IdV 8, Unione di Centro 6,51, Lista Pannella-Bonino 2, 60, impazza Puttanopoli, le farmacie sono assediate dalle insistenti richieste di Viagra®, La Pfizer è costretta ad aumentare la produzione, la famiglia Letizia chiede il permesso di partecipare all’ottava edizione dell’Isola dei Famosi, una scossa di 5.8 gradi della scala Richter rade al suolo l’Aquila, muore Michael Jackson, la Lazio vince la Supercoppa Italiana, l’Italia ospita il G8 nella tendopoli di Coppito, Teheran è sotto assedio da settimane, dimostranti in attesa di risposte rivendicano elezioni democratiche e le pagano col sangue, le Ronde del nuovo ventennio acquisiscono statuto giuridico dal Parlamento Italiano e dal Senato della Repubblica, in Europa avanza il nazionalismo, passa il Ddl sicurezza, nella Russia di Putin Anna Politkovskaja e Anastasia Baburova vengono barbaramente assassinate, 5 operai della Innse si barricano con i propri diritti su una gru elettrica a 6 metri di altezza e a 40 gradi d’indifferenza, è l’estate del 2009 e l’Italia come ogni anno si concede il relax dai buoni propositi, spalmata come grumi di maionese sulle spiagge dei litorali nazionali, cinica e passionale, ma con il sacrosanto alibi delle ferie posticipate. La coscienza va in ferie anche quest’anno, mentre gli italiani arrancano lungo le file chilometriche dei caselli autostradali.
Alla radio impazza “Non riesco a farti innamorare” del neomelodico Sal Da Vinci.
La mano prova a spingersi un po’ più in là, prova a inoltrarsi oltre la coltre di barellieri e medici che discutono sulla 96esima estrazione del Superenalotto. La mano trema. La mano prova a cercarti. Cade penzolante sul lato destro, disegna maldestra il perimetro longitudinale delle mattonelle, si diverte con i contorni delle cose, guadagna tempo. Gli occhi scivolano veloci lungo le facce bianche degli infermieri di reparto che, appena giunti sulla soglia del pronto soccorso, risolvono l’ingombro della tua presenza con un formale: “attenda...”. Il cigolio della porta sbattuta ricaccia la tua voce fuori, altrove, lontano anni luce dal mio dito indice e dalla presa molesta del tuo pollice destro. Emarginati. Internati come profughi lungo i muri deserti della sala d’aspetto. Non potrai mai più tentare la presa, adoperarti con lo stesso zelo di certe passioni. Le tue mani sono ricoperte di sangue rappreso sull’asfalto di via Palmiro Togliatti, pezzi di meccanica sono sparsi come bossoli sulle strisce pedonali di Via Chiovenda a rinnovarti, come una preghiera, l’esatto punto di rottura.
E non potrai più nemmeno morderti le labbra, guardarmi parcheggiare in divieto di sosta sotto il marciapiede della tua finestra. Ma laverai via lo sporco, graffiando con cura l’asfalto.

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