non si può rinascere se non morendo, e non si può morire senza soffrire e senza lasciare una scia di sofferenze dietro di sé. fu un meticcio randagio, nato probabilmente dopo un parto cruento, a insegnarmi questa cosa abbaiandomi rancoroso mentre camminavo con un ghignante avvoltoio sulla spalla. cacciai il rapace senza degnarlo di uno sguardo, per lui c'era la vecchia carcassa se voleva e non si fece pregare: la divorò. con lui iene, sciacalli, corvi in un banchetto senza fine, guardati solo per un attimo da tre lupi bianchi, che censiti i commensali si allontanarono presto.
sono incapace di proteggere i fiori dalla voglia di coglierli, di fissare una gioia prima che svanisca, di ricordarmi le linee di un quadro dopo che mi ha sprofondato negli abissi incorporei dell'estasi. un centro non si evince, mi sento posseduto da mille motori, sinfonia senza partitura di mille rumori. non c'è presa di posizione che serva, ogni verità corre sulla groppa del suo contendere e con esso si unisce e muore, tutto risiede in un'immensa matrice dai contorni definiti. comprendo questo ma rifiuto di codificarlo, e allora i contorni sfumano, i confini si dilatano...
i tre lupi bianchi da lontano mi guardano, fissi, e con la coda sciolta e le orecchie ritte danno la loro approvazione. vogliono che li guidi, restando alle loro spalle. loro in cambio veglieranno su di me.