Quando il presidente Barack Obama ha recentemente svelato, presso il Pentagono, la nuova Strategic Defence Review, nelle sue riflessioni non ha nominato il Paese che tutti si aspettavano: la Cina. Mentre metteva in rilievo che gli Stati Uniti continueranno a contribuire alla sicurezza “a livello mondiale”, ha osservato che “necessariamente riequilibreranno i propri interessi verso la regione dell’Asia-Pacifico”. Sottolineando quanto ci si aspettava, ossia che ci sarebbero stati dei “tagli” progressivi al bilancio della Difesa, Obama ha tuttavia confermato che gli Stati Uniti continueranno a detenere la “superiorità militare” e che il loro profilo militare nella regione dell’Asia-Pacifico non subità ripercussioni. Il nuovo riesame della strategia difensiva statunitense suggerirebbe nuove politiche diplomatiche e militari nella fase post-Iraq/Afghanistan, ed è rivolto al futuro, ben all’interno del XXI secolo.
Quello che Obama non ha detto era chiarito nella parte centrale del rapporto. Esso sottolinea che l’emergere della Cina come potenza militare ed economica sia effettivamente divenuto motivo di controversia. Sfortunatamente per loro, i Cinesi sono stati collocati nello stesso paragrafo della “minaccia” iraniana. Nella mente dei pianificatori della politica statunitense, non ci sono dubbi che a lungo andare l’ascesa della Cina come potenza regionale avrà la “capacità” (“potential“) di affliggere l’economia e la sicurezza degli Stati Uniti in “vari modi”. Mentre riconosce che i due paesi hanno interesse a mantenere la pace e la stabilità in Asia Orientale e a costruire una relazione fondata sulla “cooperazione”, il rapporto pretende che la Cina debba “chiarire le sue intenzioni strategiche” al fine di evitare attriti nella regione. Non è stato detto se la China “collaborerebbe” con gli Stati Uniti nel perseguire la propria politica nella regione, o se adotterebbe un profilo strategico ostile agli interessi statunitensi. Forse quello era il significato dell’espressione “chiarire le sue intenzioni strategiche”. Di conseguenza dal rapporto è emerso chiaramente un doppio binario nella politica statunitense. Gli Stati Uniti continueranno a lavorare con la Cina, e allo stesso tempo terranno gli occhi aperti sulle sue “intenzioni”.
I cinesi non hanno risposto in modo ufficiale all’ultimo rapporto, ma i loro media hanno espresso chiaramente il punto di vista del paese attraverso una serie di articoli. La maggior parte di questi articoli è stata pubblicata sulla stampa ufficiale, come il Quotidiano del Popolo e la sua creatura, il Global Times. Il tema dominante è che la Cina deve restare calma e continuare nel suo sviluppo. Allo stesso tempo, la Cina deve rimanere vigile riguardo alle “intenzioni” di Washington, ma studiare un modo per “cooperare” nell’ambito delle relazioni bilaterali. La Cina ha fatto sapere che è la meno interessata a cominciare un’altra guerra fredda, ma che non rinuncerebbe alla sua sicurezza “periferica”. Quello che la Cina intende per sicurezza “periferica” non è stato chiarito, com’è abitudine cinese, ed è stato lasciato di proposito in una deliziosa vaghezza. La visita di questa settimana a Pechino del Segretario di stato per gli affari del Sud-est asiatico, Kurt Campbell, potrebbe forse aiutare a chiarire la questione.
Così, mentre Cina e Stati Uniti si studiano e si confrontano, il dilemma per gli altri Stati asiatici è davvero grande. La Cina e gli Stati Uniti vanno verso lo scontro, o stanno semplicemente manovrando per trarne dei vantaggi tattici? Nonostante la spavalderia ufficiale e le congetture dei media da entrambe le parti, i due paesi restano impegnati nel dialogo. L’impegno degli Stati Uniti con la Cina è in realtà enorme. A parte il dialogo “strategico ed economico” ad alto livello, c’è anche una commissione congiunta sul commercio e gli affari presso cui si tengono incontri annuali. A livello istituzionale ci sono cinquantaquattro meccanismi bilaterali in cui si tengono trattative tra i due paesi. Alcuni di questi dialoghi sono presieduti da esponenti del governo e si tengono annualmente. C’è anche un dialogo Usa-Cina sull’Asia Meridionale. Non vi sono altri due paesi che abbiano un’interazione altrettanto variegata.
Gli Stati Uniti sono uno dei maggiori mercati per la Cina: il commercio bilaterale si avvicina ai 400 miliardi di dollari, sebbene sia pesantemente sbilanciato in favore della Cina. L’enorme deficit di conto corrente che gli Stati Uniti attualmente accumulano di anno in anno permette alla Cina di investire il suo sovrappiù commerciale con l’estero in titoli di Stato del governo statunitense. La Cina ha bisogno di una crescita delle esportazioni per sostenere l’incremento dell’occupazione e preservare la stabilità sociale. Con alcuni settori industriali cruciali (quali acciaio, alluminio ecc.) che mostrano eccesso di capacità, la Cina ha bisogno del mercato statunitense più che mai. Per questo ha poche alternative all’acquisto di obbligazioni del Tesoro Usa con le riserve che ha accumulato gestendo il tasso di cambio. Il 70% delle riserve cinesi di valuta estera sono in dollari americani. Con l’eurozona che continua a declinare economicamente, le altre alternative per la Cina sono perfino più cupe. Dall’altra parte, gli Stati Uniti continueranno ad aver bisogno di compratori dei loro titoli per finanziare il loro enorme deficit, in modo particolare se il tasso di risparmio nazionale continua a crescere lentamente.
È evidente a qualsiasi osservatore che i due paesi sono strettamente legati e troveranno estremamente difficile allontanarsi, anche se le circostanze lo richiedono. Entrambe le nazioni dovrebbero pagare un prezzo pesante. La questione che quindi emerge per i paesi situati nell’area dell’Asia-Pacifico è: come gestire le relazioni con i due giganti? Dipendere completamente dall’uno o dall’altro potrebbe avere conseguenze fatali. Mentre gli Stati Uniti tentano di riposizionarsi nella regione dell’Asia-Pacifico, e la loro offerta di fornire sicurezza di fronte a un’offensiva cinese sembra un’alternativa allettante, molti piccoli Stati regionali non sono sicuri che al dunque gli Stati Uniti li appoggerebbero davvero. Gli Usa sarebbero disposti a sacrificare i loro enormi interessi in Cina per loro? O l’attuale disposizione statunitense è soltanto una posa volta a migliorare la posizione strategica?
Anche in India dovremmo essere più perspicaci, se il passato è d’aiuto. Durante la guerra del 1962 con la Cina, gli Stati Uniti furono effettivamente molto d’aiuto, ma in seguito al conflitto sia Stati Uniti sia Gran Bretagna esercitarono pesanti pressioni per “risolvere” la questione del Kashmir. Le due potenze, a quanto si dice, presentarono un progetto per un accordo che era decisamente favorevole al Pakistan. Analogamente, in pochi in India possono dimenticare gli intrighi di Nixon e Kissinger quando, nel 1971, tramavano con la Cina contro gli interessi indiani. Il comunicato congiunto diffuso dal presidente Clinton assieme ai cinesi dopo gli esperimenti di Pokhran nel 1998 ebbe come conseguenza l’instaurarsi di una “co-partnership” relativa all’Asia Meridionale.
Di conseguenza, se in India dovremmo accogliere con favore un cambiamento del profilo strategico,e forse del pensiero, degli USA, allo stesso tempo non dovremmo lasciarci prendere dall’euforia ma esaminare la questione molto attentamente, pena ritrovarci un’altra volta inutilmente in conflitto con i cinesi, a nostro danno e svantaggio strategico.
(Traduzione di Giulia Renna)