Il Risorgimento che non ti aspetti: Giornate di sangue a Torino

Creato il 07 gennaio 2015 da Redatagli

Nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Torino si è distinta nei grandi festeggiamenti per la ricorrenza, l’intera città si è tinta di tricolore.
Ma i primi anni del Regno italiano non hanno portato al capoluogo piemontese solo grandi responsabilità. All’epoca le principali piazze del centro storico di Torino (piazza Castello e piazza San Carlo) sono state teatro di stragi, sulle quali ancora oggi non è stata fata chiarezza.
A riportare alla memoria i fatti è uscito recentemente Giornate di sangue a Torino, un libro inchiesta di Francesco Ambrosini, autore appassionato di ricerca storica.

Il 21 e il 22 di settembre del 1864 a Torino i carabinieri e l’esercito hanno sparato sulla gente che manifestava pacificamente nelle piazze. Le fucilate erano state precedute dalle sciabolate dei poliziotti (allora chiamati guardie di pubblica sicurezza). I dimostranti, fra cui diverse donne e molti ragazzi, erano disarmati e non avevano nessun intento sovversivo, ma contestavano soltanto la decisione di spostare la capitale da Torino a Firenze, presa quasi di nascosto dal governo senza nemmeno informare le Camere e mettendo tutti davanti al fatto compiuto. La risposta fu una insensata repressione che causò più di 50 morti e circa 130 feriti.

Come si arrivò alla decisione di spostare la capitale?

"Torino era la capitale italiana dal marzo 1861, quando i plebisciti avevano sancito l’acquisizione delle regioni centromeridionali. Nell’estate del 1864, il governo presieduto da Marco Minghetti, fortemente ostile a Torino e legato a interessi localistici dei suoi componenti, tutti non piemontesi, condusse una trattativa segreta con la Francia a proposito di Roma. Due erano gli obiettivi dei ministri: allontanare l’imbarazzante presidio francese che difendeva il potere del papa nel Lazio e trovare un sede per la capitale che non fosse la città piemontese, concretizzando una tesi che aveva non pochi fautori in Italia.

Napoleone III era ben contento di rimuovere, dopo molti anni, la sua guarnigione da Roma, ma poteva farlo senza perdere la faccia solo di fronte alla garanzia italiana di non cercare di occupare quella città per mettervi la capitale. Lo spostamento da Torino a Firenze, dunque, accontentava entrambi i governi: una volta trasferita in Toscana, la capitale italiana vi sarebbe rimasta."

Si è trattato di un intricato negoziato internazionale?

"Un vero pasticcio diplomatico. Si otteneva la fuoriuscita dei soldati di Napoleone III dalla penisola, ma ci si impegnava a portare via la capitale da Torino e a non fare nessun tentativo di installarla nella sua sede naturale e cioè Roma, diventando in questo modo i nuovi difensori del dispotico pontefice Pio IX, il quale non esitava a condannare a morte chi gli si opponeva. Un tradimento delle istanze patriottiche di tutti gli italiani e delle aspettative dei torinesi, di origine o trasferitisi con lo sviluppo della città. Quello sviluppo, bloccato così sul nascere, ritornerà dopo anni e con fatica.

Ma questo è solo l’antefatto, lo spostamento della capitale passò in secondo piano rispetto alla sconsiderata gestione dell’ordine pubblico a Torino da parte del governo Minghetti. Infatti le inchieste successive accertarono che fra i dimostranti vi erano dei provocatori mandati dal governo. Oltre a controllare quasi tutti i giornali riempiendoli di false informazioni, il Ministero degli Interni gestiva una sorta di polizia parallela affiancata quella locale, già di per sé incline a perseguitare chi dissentiva dal potere."

Allora vennero condotte delle inchieste?

"Furono due le Commissioni d’inchiesta: una parlamentare e l’altra municipale. Entrambe ricche di testimonianze dettagliate, da cui risultava il comportamento criminale di molti allievi carabinieri, questurini e soldati, ma tutto venne insabbiato. Né il parlamento né la magistratura (civile e militare) vollero individuare i responsabili, al contrario fecero in modo di minimizzare l’accaduto. Anche il successivo governo non volle parlarne.

Infatti, di fronte ai cadaveri della gente nelle piazze il governo Minghetti si dimise, però i vari ministri, dopo un gioco di scaricabarile fra loro e con le autorità militari e di polizia, ritornarono ben presto quasi tutti a ricoprire prestigiose cariche istituzionali e a svolgere carriere nell’amministrazione. La capitale venne trasferita nella primavera successiva a Firenze e la polizia continuò in seguito a incarcerare chi osava protestare per la mancanza di lavoro nella crisi economica che si stava concretizzando, in certi casi facendo persino sparire i contestatori." 

Da dove è nata l’idea di scrivere su questi argomenti?

"Dalla curiosità di capire come e perché la capitale è stata trasportata a Firenze. Nei libri di storia si parla poco delle proteste e si dice che si trattava di moti di rivolta dei torinesi. I documenti dimostrano invece che non si è trattato di “moti”. Le manifestazioni erano sostanzialmente pacifiche ed estemporanee, oltre che non supportate da specifiche ideologie politiche. Gli slogan erano «Viva Garibaldi!» e «Roma capitale!» perché i dimostranti, consideravano giusto rinunciare al ruolo di Torino per attribuirlo a Roma, sventolavano bandiere italiane e, oltre che contro l’impopolare governo Minghetti, inveivano nei confronti del potere temporale del papa. Dopo il massacro, molti contestarono lo stesso re Vittorio Emanuele II che non aveva difeso la sua città. Per questo mi è parso necessario rendere in qualche modo giustizia alle vittime, anche se tardivamente, tracciando una cronaca dei fatti in cui compaiono le voci dei testimoni raccolte nelle inchieste. Quelle vittime dopo avere subito la repressione del potere, sono state prima calunniate come pericolosi sovversivi e poi anche dimenticate dalla storia."

Come mai questo avvenimento è stato trascurato finora dalla storiografia?

"Forse perché è una vicenda “scomoda” e imbarazzante per chi si è trovato al potere in ogni epoca. Nel libro è raccontato come la tragedia collettiva vissuta dalla popolazione torinese in quei giorni sia scaturita dal comportamento del governo che ha fatto salire la tensione, ma anche da equivoci e dalla stupidità umana, fino alla grottesca situazione in cui i militari si sono sparati fra loro nella piazza San Carlo gremita di persone, molte delle quali non stavano neanche manifestando ma passavano di lì. Ne hanno fatto le spese i cittadini e anche la credibilità delle forze pubbliche. Io credo che abbia contato un po’ anche il fatto che questi manifestanti non erano figli di nessuna ideologia in particolare, privi di sponsor, quindi."

Ma perché il governo Minghetti creava un clima di tensione?

"Se a Torino la gente reagiva con animosità a quanto stava avvenendo diventava facile per il governo dire che quella città, così poco disciplinata, era inadatta al ruolo di capitale. In realtà i torinesi erano tradizionalmente sempre stati tranquilli e legati alle istituzioni. Un paradosso, quindi. Inoltre delle manifestazioni “animate” potevano permettere una forte repressione, utile per scoraggiare future contestazioni e anche eventuali derive “mazziniane” delle proteste, che non c’erano ma il governo sicuramente le temeva."

Come possiamo considerare i fatti nell’ottica risorgimentale? E perché questo libro può interessare il pubblico oggi?

"È una vicenda complessa che ha riguardato Torino e tutta l’Italia da poco unificata, sia pure non completamente, nella quale esistevano grandi differenze e contrapposizioni non solo fra sud e nord ma anche fra il Piemonte e le regioni del centro. Molti politici manifestavano insofferenza verso quella regione che pure si era impegnata così tanto per l’unificazione nazionale e ne contestavano il ruolo-guida. Al primo ministro Minghetti, bolognese, e a quello degli Interni Peruzzi, fiorentino, spostare la capitale pareva una vittoria e si erano mossi in modo spregiudicato. Ma non prevedevano un simile esito. Il potere, di fronte a episodi di dissenso, reagì con goffa violenza.

Del resto il nuovo Stato italiano non era nato su basi democratiche e cercava di emarginare chi era portatore di istanze rivoluzionarie. Le difficoltà più evidenti riguardavano il Sud Italia, dove, dopo la spedizione dei Mille, a Garibaldi non era stato permesso di completare l'opera di effettiva rinascita. Era mancato il tempo necessario per uno sviluppo sociale e di una nuova classe dirigente, di conseguenza quelle regioni si erano viste imporre amministratori del nord, a volte non adeguati, o quelli borbonici riciclati. E chi si era opposto in precedenza ai Borboni veniva spesso considerato pericoloso anche dai Savoia. È evidente l’analogia con i comportamenti di politici o membri delle forze dell’ordine anche in epoche successive. Da questa ricerca risulta l’origine antica delle problematiche italiane."

Su quali fonti ti sei basato nella ricerca?

"Le principali fonti da cui si è potuto trarre informazione sono i verbali delle inchieste, le lettere dei funzionari, dei politici o dei militari, le loro memorie, le pagine dei giornali, i libelli e pamphlet che sono stati scritti immediatamente dopo, i resoconti del dibattito parlamentare.

Nella documentazione d’epoca, fatta anche di manifesti affissi per le strade, di biglietti e volantini, di lettere di protesta dei cittadini, di polemiche fra le varie regioni italiane, spiccano per insensibilità e ottusità la corrispondenza di ufficiali di polizia o dell’esercito che chiedono al sindaco di ripulire le piazze dal sangue e le missive dei ministri con le quali cercano di salvare la propria immagine e carriera politica."

Che stile di scrittura hai adottato e quale tipo di libro hai voluto proporre?

"È una cronaca storica che deve spiegare chiaramente i fatti anche con l’aiuto di immagini d’epoca; la tecnica di scrittura è necessariamente quasi giornalistica. Naturalmente si parla della città di Torino e delle condizioni di vita dei suoi abitanti, oltre ad accennare al quadro storico generale, ma un enorme volume pieno di note e citazioni sarebbe stato inutile. La bibliografia essenziale permette di approfondire a chi intende farlo. È un libro che vuole avvicinare un ampio pubblico, da qui l’idea di un tascabile, ma scritto con caratteri grandi, e del prezzo di 8 euro. In questi mesi ha riscosso un certo successo, dopo l’uscita al Salone del libro del maggio scorso e i diversi incontri di presentazione e di dibattito."

Come si colloca questo tuo quarto libro rispetto ai precedenti?

"Come un seguito naturale. La biografia di Garibaldi di cui sono coautore aveva anche l’obiettivo di mettere in risalto aspetti meno noti di un personaggio così importante, della sua vicenda, in particolare nel suo periodo sudamericano.

Il recente romanzo L’ussaro e Margherita è ambientato all’inizio dell’Ottocento, quando l’afflusso delle idee della rivoluzione francese fa nascere nella penisola italiana un nuovo sentimento rivoluzionario nazionale; lì si trovano le origini del successivo Risorgimento e i personaggi si evolvono con la società e con gli avvenimenti.

Il saggio Tutta la storia del Titanic, ambientato in un altro momento in cui il mondo era in piena trasformazione, racconta la vicenda drammatica di chi subì le conseguenze della follia della competizione sui mari. Le centinaia di migranti dimenticati dopo essere stati lasciati morire nella stiva del transatlantico, che aveva splendidi salotti ma pochissime scialuppe di salvataggio, sono stati gli “ultimi” della Storia come lo sono state le vittime di Torino."

Serena Avezza
@twitTagli


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