Questo obiettivo avrebbe dovuto essere raggiunto attraverso un’alleanza con gli Stati Uniti nell’ambito di una rigida suddivisione del mondo in sfere di influenza. Un simile visione avrebbe poi influenzato la più famosa “Dottrina Matsuoka”, una vera e propria dottrina Monroe in salsa asiatica che, tra gli altri, aveva come obiettivo la lotta al comunismo in alleanza ad una Cina nazionalista in posizione subordinata. In luogo dell’alleanza vi fu la guerra per il dominio nel Pacifico, ma durante lo sforzo bellico l’Impero del Sol levante fece proprie alcune di queste opinioni: il Giappone doveva dare vita un “Nuovo Ordine Asiatico” nel nome della liberazione dell’imperialismo dell’uomo bianco e della nascita di una Sfera di Co-Prosperità per tutto il continente. La giustificazione ideologica del “diritto naturale” all’espansione si concretizzò, in realtà in uno dei più violenti imperialismi le cui principali vittime furono i popoli cinesi e coreano.
Tra tutte le atrocità commesse risaltano quelle perpetrate a Nanchino nel dicembre del 1937. In quei giorni, secondo la sentenza del Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente, si era sviluppata l’azione di una “orda barbarica impegnata dissacrare la città” con soldati che in solitudine o in piccoli gruppi “si sparsero per la città uccidendo, violentando e distruggendo: non c’era disciplina, molti soldati erano ubriachi; soldati si affollarono nelle piazze, nelle strade e nei vicoli, uccidendo in modo indiscriminato e senza apparente provocazione uomini, donne e bambini cinesi”. I numeri del massacro, indipendentemente dalla mancata concordanza nei calcoli, sono tra i più impressionanti: dai 260 mila secondo Tribunale ai 300 mila secondo Pechino.
La sconfitta nella seconda guerra mondiale portò ad una riorganizzazione interna di stampo democratico ad opera degli Usa, Paese occupante, sfociata poi in una nuova Costituzione che, oltre a spogliare di sacralità e di potere reale la figura dell’imperatore (aspetti mai messi in discussione dal fascismo nipponico), chiudeva con una lunga tradizione di militarismo: l’art. 9 prevede tutt’ora la rinuncia alla guerra per la soluzione delle dispute internazionali e il divieto di ricostituzione delle forze armate. In realtà nel 1954, in piena guerra fredda e con Tokyo subito assurto a bastione dell’anticomunismo nel sistema difensivo anti-sovietico statunitense, ricostituì forze militari terrestri, aeree e marittime sotto il tranquillizzante nome di Forze di autodifesa.
Un progetto Kita Ikki in versione subalterna?
La perdurante crisi economica, il crescente peso della Cina sulla scena internazionale e l’infiammarsi della contesa sulla isole Diaoyu/Senkaku hanno stimolato l’emergere di un rinnovato nazionalismo giapponese, ormai non più solo fisiologico patrimonio di gruppuscoli minoritari e nostalgici. Il sensibile spostamento a destra coinvolge ormai i partiti principali della politica giapponese come quello democratico e quello liberal-democratico. E tra gli esponenti di questi emerge Shinzo Abe, leader conservatore dei liberal-democratici e prossimo primo ministro alla luce dei risultati elettorali di sabato scorso. Alla vigilia dell’elezioni anticipate, è stato il più convinto nel riportare in auge la tematica della revisione costituzionale per chiudere una volta per tutte la parentesi del pacifismo per restituire al Giappone, assieme ad una “piena sovranità”, il diritto di rafforzare l’esercito e di esercitare a pieno titolo misure di difesa collettiva come il correre in aiuto di un alleato. La volontà è quella di aumentare le capacità di proiezione militare e di avere un ruolo più attivo nell’Asia orientale ora che, come sottolineato dal recente Libro Bianco sulla difesa, a preoccupare sono proprio le rafforzate capacità di proiezione marittima della Cina popolare.
Il quadro in cui inserire questa crescente voglia di protagonismo è quella del più volte annunciato “ritorno in Asia” degli Stati Uniti in funzione – nasconderlo sarebbe ormai ridicolo – di contenimento della crescita politica-economica e militare di Pechino. In un’area in cui sono esplose le contese marittime tra Pechino e diversi Paesi vicini, il ruolo di “vice-sceriffo” al riparo delle potenza di fuoco a stelle e strisce è molto ambito e non sorprende che in prima fila nel reclamarlo – mentre altrove come a Manila ci si accontenta della protezione dell’ex potenza coloniale – ci sia proprio il Giappone.
Nei mesi precedenti le elezioni il ministro della difesa del precedente governo democratico Satoshi Morimoto aveva manifestato la chiara volontà del governo di rivedere il patto di sicurezza tra il suo Paese e gli Stati Uniti per porre un maggiore accento sulla minaccia cinese1. E l’asse con Washington è stato rilanciato come “fondamento” della politica estera giapponese dall’ormai ex primo ministro Yoshihiko Noda. Sempre a novembre Tokyo ha dato il via libera alla propria partecipazione al progetto Usa di uno scudo missilistico asiatico ufficialmente in funzione anti-Corea del Nord, ma dalle indubbie implicazioni nei riguardi della Cina come ebbe a dichiarare al Wall Street Journal un funzionario statunitense: “le nuove installazioni di difesa missilistica sarebbero in grado di monitorare e respingere almeno un primo colpo limitato proveniente dalla Cina, e sarebbe potenzialmente sufficiente a scoraggiare Pechino dal tentare un attacco”2. È chiaro: lo scopo è quello di vanificare lo sviluppo delle capacità anti-accesso cinesi nelle aree prossime alle sue coste dove passano le principali rotte commerciali marittime e si trovano ricche risorse minerarie. Inoltre il Giappone, stabilita la difesa della sua regione sud-occidentale come massima priorità, ha deciso di aumentare entro il 2015 le truppe di stanza nell’isola sud-occidentale di Yonaguni nel Mar Cinese Orientale, parte di quella “catena di prime isole” che va da Okinawa a Taiwan comprendendo anche le “nazionalizzate” Diaoyu/Senkaku.
Su queste ultime si sconta poi l’ambiguo atteggiamento statunitense su di una possibile estensione ad esse del Trattato di sicurezza, eventualità che potrebbe portare all’escalation di tensione con Pechino. Conseguenza che intravede con preoccupazione anche il generale e saggista Fabio Mini, non certo un prezzolato di Zhongnanhai: “Gli americani sono fra l’altro tra i principali responsabili del dissidio sulle isole del Mar Cinese Orientale e non solo perché si sono di fatto presi Okinawa e dell’isola di Kuba hanno fatto unpoligono per bombardieri. Nell’immediato dopoguerra, quando occupavano e amministravano il Giappone sconfitto, consideravano apertamente le Diaoyu come territorio cinese perché la Cina era una delle potenze vincitrici e l’impero cinese ne aveva sempre avuto la disponibilità, se non altro per i propri pescatori. Dopo l’avvento di Mao, nel 1949, gli Stati Uniti cambiarono atteggiamento e considerarono le isole come territorio giapponese e quindi “proprio territorio” visto che a quel tempo il Giappone non era uno Stato sovrano e si trovava sotto occupazione e governo militare americano. Il Giappone non si rende conto del salto nel passato che l’appoggio americano implica”3.
Un salto nel passato – aggiungiamo – con il quale l’élite politica giapponese, al di là di alcune dichiarazioni, non ha mai fatto i conti fino in fondo. Basti ricordare che il futuro primo ministro Abe a ottobre ha fatto visita al Santuario di Yasukuni, tempio shintoista dedicato alle anime dei soldati che servirono l’imperatore durante la guerra, ma che riporta anche il nome di quattordici criminali di guerra, tra i quali Iwane Matsui, comandante delle truppe responsabili del massacro di Nanchino del ’37 che, secondo una spiegazione proiettata nel museo del santuario, sarebbe stato solamente un atto per scoraggiare un’ulteriore resistenza cinese. Il museo, insomma, è un vero e proprio inno all’avanzata giapponese in Asia dal 1931 al 1945 in nome della difesa dei Paesi vicini dal colonialismo occidentale.
Nei circoli giapponesi più accesamente nazionalisti al tradizionale revisionismo storico si accompagna l’adesione – e a Pechino l’allarme è scattato più volte – a progetti di balcanizzazione della Cina (durante le seconda guerra mondiale gli Stati “fantoccio” cinesi sono stati strumento di controllo del continente per Tokyo) attraverso il sostegno alle forze indipendentiste tibetane e quelle uighure dello Xinjiang. Nel maggio di quest’anno proprio la capitale nipponica aveva ospitato il Congresso Mondiale degli Uighuri (World Uyghur Congress – WUC) con la sua celebrata leader Rebiya Kadeer, da tempo negli Usa e da essi finanziariamente sostenuta tramite il Dipartimento di Stato in nome della difesa dei diritti umani. Il viaggio della leader separatista si è macchiato di una vera e propria provocazione che rende esplicito il carattere anti-cinese dell’iniziativa: la visita al sopra citato santuario di Yasukuni. E sempre in Giappone a sostenere apertamente il Congresso Uighuro sono movimenti di estrema destra che, già in passato, erano balzati alle cronache per aver organizzato una “Giornata anticomunista”, in segno di protesta per la normalizzazione dei rapporti cino-giapponesi, e per l’aperto sostegno dell’indipendenza di Taiwan (già colonia giapponese dal 1894 al 1945).
La garanzia di una protezione statunitense potrebbe dare ad un Giappone in pieno revival nazionalista il via libera ad un ruolo più attivo e intraprendente sia a livello diplomatico che militare. Il progetto del fascista Kita Ikki, riesumato da un passato di invasioni e orrori, ritroverebbe attualità anche se in versione subalterna: il Giappone non avrebbe una sua “dottrina Monroe” e l’esclusivo dominio in Asia, ma mostrerebbe sul petto una semplice stelletta da vice-sceriffo applicata dall’unica “potenza indispensabile” del Pacifico, impegnata a contenere il vero competitor asiatico: la Cina popolare. All’Asia da difendere dal colonialismo bianco si ne è sostituita una da proteggere da quello “rosso” di Pechino.
Paura della Cina? C’è chi reclama il risveglio del Giappone.
Il passato del militarismo giapponese, della sua estrema violenza e del suo crudele razzismo, è facilmente derubricabile a passato mummificato se la volontà è quella di fermare l’ascesa della Cina, il cui passato è – conviene ripeterlo – quello di vittima principale del colonialismo giapponese e occidentale. In una recente intervista al Financial Times il ministro degli esteri delle Filippine Albert del Rosario ha dichiarato di sostenere un riarmo del Giappone che passi da una revisione della sua Costituzione pacifista in vista della “ricerca di fattori di bilanciamento nella regione”4. Posizione che, sebbene inquadrabile nel totale sostegno della dirigenza filippina al ritorno in Asia degli Usa e nelle dispute marittime con Pechino, stupisce alla luce del fatto che Manila fu, tra il 1940 e il 1941, vittima proprio del militarismo nipponico. Di certo il governo filippino un primo risultato lo ha ottenuto: un accordo di cooperazione militare con Tokyo e la fornitura di dodici nuove e moderne navi di pattuglia per la sua guardia costiera. E più stretti si sono fatti anche i legami militari con l’Australia: il Visiting forces Agreement prevede esercitazioni militari congiunte in territorio filippino e formazione del personale filippino in Australia5.
Non ci resta che attendere l’avvio della nuova guerra fredda.
NOTE
1“Japan to seek defense talks with U.S.“, Japan Times, 10 novembre 2012 e “Japan Aims to Revise Security Pact With U.S.”, The New York Times, 9 novembre 2012
2“US plans new Asia Missile Defenses”, Wall Street Journal, 23 agosto 2012.
3Fabio Mini, “Usa contro Cina: ordine di battaglia”, Limes. Rivista italiana di geopolitica, 6, 2012.
4“Philippines backs rearming of Japan”, Financial Times, 9 dicembre 2012
5“Australia, Philippines to bolster military drills“, Global Nation Inquirer, 4 novembre 2012
Fonte:http://tribunodelpopolo.com/