“Fosca, è per quel manifesto. Non potremmo fare i titoli più grandi, no ecco, non così grandi, non so come dire: il carattere sarebbe perfetto ma non mi convince la forma, ecco, facciamola così, anzi, cerca di centrare il testo, magari ci mettiamo l'ombra, o forse sarebbe meglio riprendere il logo, sullo sfondo... un momento, squilla il telefono: vai con le spedizioni gli ordini sono giusti, ora però sono con la nostra addetta stamp... la conosci? Fosca, sì, ecco stiamo facendo i manifesti per la conferenza, posso richiamart...”
Mi cola una bava dal naso. È come un cordone di spuma bianca, è come vedrei le frottole se dovessi immaginarle con gli occhi più che di concetto. E insieme alle bolle alla materia schiumosa carnicina che erompe dalle narici soffia un vento di scoreggia e di metano e fa saltare i fili e i cavi e i collegamenti del telefono e dei computer hanno uno scoppiettio di girandole pirotecniche.
Cosa si prova a vivere una vita africana. Anzi, paleolitica: abbigliata di piume di pappagallo, uberi color bronzo, mi andrebbe bene anche cascanti, pidocchi e croste. Il clitoride via a morsi l'ano sfondato e i calli, dai quindici anni in là calli dappertutto. Il sentimento del ritorno.
È una salvezza che soffra di allucinazioni: che ci siano pozze di moccio capre sui tavoli e nanetti di coccio con quei peni invitantissimi di tutte le fantasie minerali della fase prima in cui si è formato in cui si è inventato l'abitare terrestre.
Torniamo a noi, Fosca.