Come capita spesso con la saggezza orientale, le parole sono semplici ma ciò a cui fanno riferimento è senz'altro più complesso. Siamo noi, quell'albero. Siamo noi quelle foglie che ritornano alle radici.
Semmai è quel “per quanto un albero possa diventare alto” che mi convince meno. Non “per quanto”, ma “proprio perché”: questo è come la vedo io. Proprio perché si cresce, proprio perchè con le nostre foglie si tocca il cielo, è ovvio, naturale, necessario tornare alle radici.
È esattamente quello che penso a proposito di Tito Barbini, scrittore e viaggiatore, o viaggiatore e scrittore, nell'ordine che si preferisce, ma anche persona che da lungo tempo ho avuto la fortuna di conoscere. È un albero cresciuto alto, Tito. Un albero che ha saputo liberarsi da ciò che lo appesantiva e lo piegava.
A un certo punto della vita Tito ha smarrito la strada – ed era una strada chiaramente segnata, apparentemente obbligata. A posteriori è stata la sua fortuna. È da allora che si è messo davvero in cammino: con i viaggi – che lo hanno portato verso le mete più remote e affascinanti – e con le parole – che certo sono un altro modo di viaggiare.
Per tutto questo oggi può tornare alle radici. Può cioè vivere l'esperienza più importante per il viaggiatore: il ritorno.
Non è affatto scontato, anche se è un pezzo che Tito ripete, a beneficio di tutti noi, che il viaggio è vero viaggio solo se implica il ritorno. Altrimenti è fuga, esperienza legittima, a volte necessaria, ma che non è il viaggio. Oppure è partenza fittizia, che non chiama in causa ciò che siamo e che possiamo diventare: turismo di molti chilometri e poca sostanza.
Non credo sia un caso che la letteratura – almeno la nostra letteratura – diventa davvero tale con una storia di un viaggio, l'Odissea. Un viaggio, prima ancora che una guerra. E non è un caso che questo viaggio sia in realtà un lungo, faticoso, contrastato ritorno.
E lo so che è un paragone ingombrante, ma con queste pagine Tito si è seduto accanto a me come un Ulisse con cui posso condividere parole e storie. E Cortona – straordinaria città che più volte ho avuto modo di visitare – ha progressivamente perso i suoi contorni per sfumare nel mito e diventare un'Itaca di Toscana.
Dopo averci accompagnato nelle estreme propaggini della Terra del Fuoco, sulle vette dell'Himalaya o alle sorgenti del Mekong, Tito ci ha fatto il regalo più bello: il ritorno a casa.
Il regalo più complesso, anche, perché penso che per uno scrittore di viaggi non ci sia niente di più difficile che raccontare il ritorno.
Vero che Tito è uno scrittore di viaggi molto particolare, che rifugge il diario, il resoconto, la narrazione lineare nel tempo e nello spazio. In particolare, con Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, il grande vuoto artico e il silenzio dei ghiacci avevano permesso di scavare impietosamente dentro e di amputare tutto ciò che alla vita non è davvero essenziale.
Ed ecco, mi sembra che Le rughe di Cortona possano riallacciarsi solo a quel libro, tra quanti ne ha pubblicati Tito in questi anni. Come se sulle mappe della vita avesse saputo tracciare una rotta diretta tra l'Antartide e Cortona. Anche questo un viaggio per sottrazione, per rarefazione. Ma solo per ritrovare l'origine, il porto sicuro, ciò che ha permesso tutto ciò che è venuto dopo.
E come non è diario il viaggio, non è autobiografia ciò che è stato. È assai di più, il lavoro della memoria – e non a caso Tito afferma all'inizio: la memoria è tutto ciò che siamo.
Diceva William Wordsworth: Il bambino è padre dell'uomo adulto. Si comincia così e il resto è viaggio – l'albero che cresce – il resto è ritorno e memoria – le radici.