Ci sarebbe da fare un discorso molto ampio, che comprenda ogni singola sfaccettatura che ha caratterizzato la lavorazione di questo film e il modo in cui è stato accolto dai (e sui) media, da parte di orde di gente illetterata schierata sotto la bandiera del pregiudizio a prescindere.
Mi sembra di sentire echi di Gravity, "ché i destriti spaziali vanno alla velocità di uno virgola ventuno gigowatt e l'addestramento degli astronauti non può durare solo sei mesi".
Gente infelice, per lo più.
Ché, se fosse felice, non starebbe a sfogarsi e vomitare veleno su facciabuco.
Ci sarebbe da fare 'sto discorso, ma mi occorrerebbero tremila parole in più. E non è il caso. Vediamo di farcene bastare solo ottocento.
Il punto è la sfida, che qui è stata di Gabriele Mainetti, Nicola Guaglianone e Menotti (rispettivamente regista e sceneggiatori), di creare un supereroe italiano. Con ambientazione italiana.
Se pensiamo che prima di Jeeg c'era Capitan Padania, capiamo subito che più che sfida era impresa epica.
Il problema è scardinare la mentalità italiana, peggiorata di brutto nell'ultimo trentennio. Quella mentalità che faceva pronunciare ai nostri genitori stupende frasi del tipo: "Ancora a perdere tempo con quelle stronzate, stai?"
E invece Lo chiamavano Jeeg Robot è stato (al cinema, ché sono andato in sala a vederlo) ciò che mi aspettavo. Trasudante cultura pop ego-riferita (per una volta non un difetto, ma un pregio), derivato dall'acculturazione che noi italiani, o le generazioni a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta hanno subito dagli yankee e dai nipponici, ma non solo... È amalgama totale dal momento che i semi della narrativa fantastica sono stati fatti germogliare nel tessuto sociale italiano coevo, individuato e localizzato, non certo rappresentativo dell'intera penisola, nella borgata romana di Tor Bella Monaca.
Operazione sopraffina, al di là degli esiti musicali della contagiosa parlata romanesca.
Perché se da un lato la "nascita" dell'eroe italico Enzo Ceccotti (in arte Hiroshi) è derivativa - l'eroe viene forgiato nel più banale degli incidenti, entrando in contatto con sostanze radioattive; ma ancora prima dell'incidente è un Leon che si nutre solo di budino e guarda film porno -, il suo divenire è italiano, esplicato dal substrato culturale della penisola che, dal 1992 a oggi, non ha fatto molto altro che sognare cellulari sempre più alla moda e cercare la fama veloce attraverso partecipazioni a spettacoli televisivi della TV commerciale.
Perfetto, un sorcino che riecheggia del Joker di Ledger sotto anfetamine e con la mania dell'igiene in stile Howard Hughes.
E non solo. Perché qui, è vero, si tratta di superpoteri. Quel fantastico che, secondo il nostro illuminato autore/scrittore Andrea De Carlo, serve unicamente a "buttarsi via".
Il fantastico non è degno di assurgere a letteratura.
Cosa che, ovviamente, vale anche per il mezzo cinematografico. E che, altrettanto ovviamente, è una gigantesca puttanata.
Così si spiega la scelta di citare apertamente Go Nagai e il suo Jeeg, citazione non occasionale ma inserita proficuamente nel contesto, in quanto facente parte dell'identità della controparte femminile Alessia (Ilenia Pastorelli) che oltre a costituire il ponte tra borgata e letteratura nipponica/fantastica, concentra su di sé il dramma della violenza sulle donne velata da una sovrastruttura immaginaria che serve a protezione di un'innocenza perduta.
Ebbene, l'impresa epica è stata vinta.
Non che da queste parti non si sapesse già, che fosse possibile scrivere di supereroi e narrativa fantastica anche da noi, con buona pace dei De Carlo di turno.
Vederlo realizzato al cinema è stato però bellissimo.
Uno schiaffo a tutti gli scettici. Anzi, un calcio in culo.
Peccato, però, perché la sala era vuota. Il che vuol dire tante cose. Troppe. E tutte brutte.
Ma di questo ne parliamo la prossima volta.
Godiamoci, per quel che durerà, questa piccola vittoria.