Un paio di settimane fa il mio viaggio si è preso una pausa in quel di Torino, per festeggiare il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori.
“Io e papà festeggiamo 50 anni di matrimonio. Vieni al pranzo, vero?”
Che per mia mamma significa: “Vieni è un ordine, figlia vagabonda!”
Mi è costato un po’ di soldi: i soldi che avrei speso per un corso di approfondimento di yoga, o per andare in Myanmar a fare Vipassana Meditation. Ma i miei genitori, insieme alla mia famiglia, sono molto più importanti di un corso di yoga.
Per quanto difficile possa essere il rapporto con i propri genitori, sono le persone che dobbiamo ringraziare per essere vivi. Non ci saranno per sempre.
“Sì mima. Certo che vengo al pranzo. Aspettatemi!”
Dopo essere stata a casa dei miei genitori per un paio di settimane, oggi sono venuta a casa mia.
L’appartamento è vuoto e freddo.
Vuoto e freddo perché non mi appartiene più. Questo non è più il mio posto.
Mi chiedo se lo sia mai stato, o se sia stato piuttosto un palliativo alla vita, questa casa, che ha combattuto i sintomi ma non ha eliminato le cause.
Fuori c’è la nebbia. Sono le cinque del pomeriggio ed è già buio. Non c’è un raggio di sole a scaldarmi il cuore, un cuore che in India batteva come mille cuori che battono, qui come uno solo.
Oggi mia sorella dopo pranzo mi ha detto: “Sei più tesa rispetto a quando eri arrivata”. E’ già la seconda volta che me lo dice, e se lo dice lei mi preoccupo: nessuno come lei sa buttarti lì la verità quando non vorresti sentirla.
Questo è ciò che accade quando si passano quattro mesi in piena libertà, seguendo il flusso delle cose, e poi di colpo si viene catapultati di nuovo indietro – e del tutto impreparati.
Il mio letto è qui, come l’avevo lasciato:
Lo studio è pieno di tutti quei ritagli, libri, aforismi attaccati al muro, che ho utilizzato per un anno intero, quello scorso, come spinta a ripartire, a inseguire un sogno che era stato messo nel guardaroba insieme a mille vestiti comprati per mettere a tacere l’insoddisfazione che avevo dentro.
E’ bello sapere che sono serviti, quei ritagli (non quei vestiti), che poi alla fine sono partita.
E’ bello tornare e sentirsi diversi.Credo nell’importanza di fare esperienze che ci facciano tornare noi stessi. Che ci tirino fuori la grinta assopita da tanti anni di nebbie, vicini curiosi e lavori pressanti. Quelle esperienze che quando torni dici “Ma come facevo, io, ad abitare qui? Questo appartamento non sono io! Non mi ha mai rispecchiata!”.
Non è casa. Questo odore non è casa. Questo letto non è casa. E neanche questo tavolo in cucina su cui sto scrivendo non è casa.
Perché questa casa è stata un passaggio, un momento in cui dovevo ritrovare chi sono, cosa non volevo più, e da lì ripartire. Ci sono un cuscino che ha visto amore e lacrime, uno studio che ha visto la passione di scrivere, cercare, e crederci.
Sempre.
C’è sempre una via per trovare la propria strada.Il segreto sta nel fidarsi e iniziare anche se non c’è che un piccolo sentiero da seguire, spesso senza luce, a volte nella nebbia.
Tre mesi in India e uno in Nepal di cui conoscevo solo il primo passo, ma non il cammino. Mi sono fidata e ho iniziato da lì, da un corso di yoga che mi ha portata dove mai avrei immaginato.
Non ci vogliono né troppo coraggio, né due lauree e nemmeno chissà quale colpo di fortuna.
Per riuscire a stare bene, per trovare la via, basta affinare l’ascolto delle proprie sensazioni.
Seguire solamente ciò che sentiamo sia giusto. E prestare attenzione ai segni.
Non c’è bisogno di nient’altro.
In India avevo cominciato a lasciar andare il controllo sulle situazioni, a seguire gli eventi a seconda di come si sviluppavano in modo naturale. La spiritualità dell’India ha inciso sulla mia capacità di ascoltare me e le mie sensazioni: il corpo, l’ansia, la gioia, l’intuito.
Un mal di pancia può dirci più di tante elucubrazioni, se lo vogliamo ascoltare.Avevo pianificato delle cose, e invece sono finita da tutt’altra parte: vi faccio un esempio.
Dopo aver preso la certificazione per poter insegnare yoga avevo trovato un luogo in Cambogia dove poterlo insegnare, gratuitamente, inserendomi per un paio di mesi all’interno di un progetto. L’idea di tornare nel sud della Cambogia, in mezzo alle risaie, mi esaltava, pensavo “Devo andarci! Che bello tornare in Cambogia! Ora mando loro un’email!”. E poi non la mandavo mai. Passavano i giorni, e io non la mandavo.
Il giorno prima di entrare al Tushita Centre e iniziare il ritiro silenzioso di dieci giorni di meditazione buddhista, ho trovato mille cose da fare pur di non mandare quella email. “Va bene, la mando poi quando esco dal ritiro!”. E non la mandai neppure dopo, inventandomi una scusa dopo l’altra.
Siamo bravissimi a boicottare ciò che non vogliamo che accada. Allora perché insistere?Pensiamo di non avere la risposta, di non saper decidere, quando invece basterebbe guardare ciò che boicottiamo inconsciamente: quello è ciò che non vogliamo fare.
Poi lessi di uno studio a Kathmandu che cercava una insegnante di yoga. E mandai la mia candidatura il giorno stesso.
Un mese dopo ero in Nepal a tenere la mia prima lezione di yoga.
Perché lo mandai subito, il mio curriculum? Perché era quello che volevo.
Quando si vuole davvero qualcosa, non si aspetta una settimana: si vuole che la cosa inizi il prima possibile. E io in Cambogia, in quel momento, forse non volevo andare, perché ci ero già stata.
Volevo scoprire un posto nuovo perché ero nuova dentro.Destino? Scelta personale? Io credo che la vita sia un mix di entrambi, e il destino giusto si compie quando sappiamo leggere i segni che il corpo ci manda in ogni situazione.
Il destino sbagliato, invece, si compie quando, anziché ascoltare i segni, ascoltiamo la nonna, il vicino, il collega, la ragione che manda la paura a frenare la nostra parte bambina, quella che ci dice “Tu vuoi questo, fallo!”.
Ora chiudo la casa e torno dai miei. Mi metto la sciarpa, il cappello di lana e gli stivali, che dopo quattro mesi di infradito mi hanno fatto gonfiare un dito.
Ditaccio maledetto, so cosa mi vuoi dire! Ti sei gonfiato per ricordarmi che è ora di ripartire.
Butto un’ultima occhiata a una pubblicità che avevo appeso al muro, sotto la mappa del mondo, accanto ai libri di scuola:
“A 40 anni dimentica il passato. Ricomincia.”Sì, ricomincio, darling. E continuo a seguire il corso naturale delle cose, senza forzature.
Basta stare nel comfort, nel caldo della casa, nel profumo di mamma. La mia faccia ha perso colore. Il profumo, il caldo e il comfort li metto nel cuore, ma non posso avere di nuovo questa faccia.
E’ ora di fare un altro biglietto di sola andata.