Da qualche tempo a questa parte, il tanto solennemente dichiarato ‘ritorno’ in Asia degli Stati Uniti ha portato ad alcune conseguenze palesemente negative per la Cina: il deterioramento dei rapporti con i partner storici della regione, l’ulteriore inasprimento delle rivalità già esistenti con importanti attori locali e l’emergere in forma sempre più manifesta di dispute territoriali mai del tutto risolte. Ovviamente tutto ciò sta suscitando preoccupazione da parte dell’opinione pubblica cinese, che si sente particolarmente minacciata dal riposizionamento di Washington nell’area dell’Asia Pacifica. Tuttavia secondo l’opinione espressa da Jin Canrong, Vice-Direttore dell’Istituto per le Relazioni Internazionali presso l’Università del Popolo Cinese, per conto dell’agenzia stampa Xinhua, non è ancora detta l’ultima parola riguardo al timore più diffuso a Pechino: «È ancora da vedere se gli USA siano in grado o meno di contenere la Cina così come fecero con l’Unione Sovietica».
Dunque ragioni geopolitiche, in primis. La seconda importante ragione – sostiene Jin – è invece una considerazione geo-economica: «Lo sviluppo economico della regione Asia-Pacifico è ottimo, e nonostante la Cina svolga un ruolo chiave in questo ambito, anche lo sviluppo di altri paesi quali India, Vietnam, Indonesia e Corea del Sud è assolutamente buono» ed è perciò nell’interesse di Washington «ritagliarsi un posticino nella regione con il più dinamico sviluppo economico». Come si può vedere, queste considerazioni non riguardano esclusivamente Pechino.
Una quarta ragione va invece ricercata – secondo Jin Canrong – nell’ambito della politica interna statunitense: «Il Governo di Obama spera di rompere con la politica di Bush figlio, che si era concentrata oltremisura sulla lotta al terrorismo e sul Medio Oriente, trascurando la regione Asia-Pacifico». Di conseguenza se l’attuale presidente USA dovesse riuscire a rimediare a tale errore, tornando in Asia e guidando le politiche del continente, «questo sarebbe un importante successo della politica estera dell’attuale governo».
La quinta ragione sarebbe da individuare, infine, in un atteggiamento nei confronti dell’Asia-Pacifico condiviso da numerosi singoli politici statunitensi: «L’entusiasmo è presente ovunque, dal Presidente fino ai consiglieri di Stato e ai semplici funzionari» – fa notare lo studioso. A partire dallo stesso Obama (che non appena entrato in carica ha dichiarato di provare un particolare interesse per l’area) passando per Hillary Clinton e Kurt Campbell (assistente della Clinton per gli affari dell’Asia Orientale e Asia-Pacifico, che pare godere della fiducia del Presidente) l’Asia Pacifica è al centro delle considerazioni di numerosi politici e funzionari di Washington: «Tutti loro hanno formato un particolare gruppo che preme per lo spostamento verso l’Oriente del baricentro della strategia statunitense».
Fra queste cinque motivazioni – conclude Jin – soltanto una riguarda direttamente la Cina, mentre le rimanenti, ossia la maggioranza, o si ricollegano soltanto indirettamente a Pechino, o non la riguardano affatto: «Per questo motivo l’idea per cui il ritorno degli USA in Asia sarebbe interamente dovuto alla Cina non corrisponde alla realtà dei fatti». Sebbene la strategia del ‘ritorno’ in Asia degli USA, basata essenzialmente sul controllo dei tre ambiti politico, economico e militare come premessa per il controllo di tutto il resto, avrebbe conseguito a prima vista qualche risultato, «nella prospettiva a lungo termine, non sarà possibile per gli USA raggiungere pienamente i loro obiettivi».
Gli Stati Uniti infatti – fa notare lo studioso – potrebbero non essere in grado di proseguire e portare a termine con efficacia questa politica. Innanzitutto il problema della rielezione dell’attuale presidente nelle imminenti elezioni presidenziali: «Se Obama otterrà o meno la rielezione è ancora incerto. Se Obama dovesse risultare sconfitto entrerebbe in scena Romney ed il nuovo esecutivo non necessariamente promuoverà attivamente la strategia dello ‘spostamento ad Oriente’». Anche in caso di rielezione, pare che ci sarà un ricambio nell’amministrazione Obama, e non è detto che i membri del nuovo governo saranno disposti a promuovere questa strategia con lo stesso zelo dei predecessori. In secondo luogo, «nei prossimi dieci anni l’economia statunitense potrebbe continuare a trovarsi nel mezzo di una persistente stagnazione ‘in stile giapponese’», fatto questo che, privando Washington di una solida base finanziaria, inciderebbe inevitabilmente sulla capacità da parte degli USA di sostenere la propria ampia strategia di penetrazione e di controllo. Terzo, le sfide che gli Stati Uniti dovranno affrontare in altre parti del mondo non sono ancora finite, e ci sono presagi che starebbero ad indicare che, anzi, ne sorgeranno di nuove in futuro: il salvataggio economico dell’Unione Europea, le relazioni sempre più tese con Mosca, i pericolosi effetti collaterali delle ‘primavere arabe’ e l’emergere di certe istanze anti-statunitensi in aree, come l’America Latina, tradizionalmente considerate il ‘cortile di casa’ di Washington. Ultimo, ma non minore per importanza, il fatto che «i paesi vicini alla Cina sperano che gli Stati Uniti vengano da loro per fare i ‘gendarmi’, e non per fare i ‘padroni’»: a quanto pare, quindi, esistono contrasti latenti anche tra gli Stati Uniti e quei Paesi che invece hanno invocato il loro ‘ritorno’ sulla scena.
Tirando le somme di quanto emerso dall’analisi, le ragioni del ‘ritorno’ degli USA sono molteplici, ma per Jin Canrong «le esuberanti ed ambiziose politiche di Washington devono vedersela con numerosi ostacoli, e la loro natura non è comunque durevole». A parere dello studioso, per affrontare il ‘ritorno’ in Asia da parte di Washington «dovremmo dunque prestare molta attenzione, ed assistere ai mutamenti in atto mantenendo un atteggiamento serio e non condizionato».