Questa è l'essenza della discriminazione: il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali, quanto sulla loro appartenenza a un gruppo con presunte caratteristiche.
Guardando Carol di Todd Haynes m'è venuta in mente questa frase, presa da un altro film. Altro contesto, altra storia. Altra epoca.
E sapete quanto io odi gli schemi d'ogni sorta.
Discriminazione è un concetto fondamentale, se preso per ciò che è: la discriminazione era la cultura americana degli anni Cinquanta, sì, bella e stilosa, ma soffocante e non dissimile da quella vittoriana, per ciò che concerneva la reputazione, quella vita sociale dell'individuo che imponeva un certo stato mentale, da cui era non tanto impossibile, quanto non consigliabile "deviare".
Ed è nel contrasto tra Carol ( Cate Blanchett) e suo marito ( Kyle Chandler) che esplode tutta la contraddizione in termini di una società falsa e ipocrita che, più che gli usi e i costumi, pretende d'ammazzare, tutt'oggi, la libertà personale.
Perché il cruccio del marito non è tanto l'indole e le preferenze di Carol, quanto il fatto che, in una società che esigeva controllo, che il controllo e l'autorità del marito se l'aspettava, per discriminazione, lei e Therese ( Rooney Mara) - e anche Abby ( Sarah Paulson), va là, che io ho persino preferito alle altre due - si ponevano al di fuori. Per di più senza nessuna remora. Donne incontrollabili, che si amavano.
Infrangere gli schemi precostituiti non è ribellione, quanto esigenza insopprimibile. E così, esattamente come l'amore e l'attrazione tra due individui è incoercibile, l'unica possibilità di vivere la propria vita appieno, per Carol e Therese, era porsi al di fuori, affrontandone le conseguenze e accettando di danneggiare o alterare il piccolo, sordido equilibrio sociale che la New York benpensante dell'epoca esigeva.
Quasi un film dell'orrore, da questo punto di vista. Mi sentivo soffocare guardando le immagini delle strade grigie di New York, dove l'unica macchia di colore era Carol. Come Therese era il colore per Carol, a seconda del rispettivo punto di vista. O dell'obiettivo della macchina fotografica.
Credo che comunicare attraverso le immagini sia intrinseco ai film, composti di sequenze d'immagini, esattamente come Haynes fa e riesce. E che dipenda dai nostri schemi mentali, ahimé spesso precostituiti, riuscire a sentire.
Nella società offuscata degli anni Cinquanta, le macchie di colore che le due donne rappresentano per se stesse equivalgono ai loro sguardi, scambiati sottecchi, nel grande magazzino.
Non c'è bisogno di parlarsi, per capire che l'altro è stato riconosciuto come unico. E che sì, si è disposti a distruggere ogni schema mentale e sociale, per trascorrere quel poco tempo che ci resta al suo fianco.
Perché la speranza di queste due donne e di tanti, moltissimi, è che in un non troppo lontano futuro la società avrebbe cessato di essere prefabbricata, precostituita sull'aspettativa di presunte caratteristiche attribuite a presunti gruppi, ma libera, una volta tanto, nell'accezione più pura.
Ancora non ci siamo.
Eppure, Patricia Highsmith volle, come ha voluto Haynes, imprimere alla speranza un lieto fine, con un prezzo. La rottura degli schemi della discriminazione si paga, è vero, si scontano sedute di psicoterapia previste dal "bene comune" e si sconta, nei casi peggiori, la "morte sociale", imposta dalla massa che non tollera deviazioni dal percorso tracciato.
A volte, non si può che essere lieti di lasciare dietro di sé tali orrori, al prezzo d'un sorriso della donna amata.