Buon Halloween con il racconto di Agnese Ciccone "Rituale domenicale", in concorso per La gaia mensa, IV edizione della competizione letteraria organizzata da Villa Petriolo e conclusasi a luglio.
All'etichetta "Racconti 2010 Concorso letterario Villa Petriolo" tutti i racconti in gara, anche nei mesi a venire.
Agnese è nata ad Arezzo e vive ad Alberoro (AR). Diplomata al Liceo Classico Francesco Petrarca di Arezzo, attualmente è in attesa di laurearsi al corso di Mediazione linguistica e culturale dell’Università per Stranieri di Siena.
Racconto "Rituale domenicale" di Agnese Ciccone
Francesca corre. Scavalca con un salto Pastore, il vecchio cane che dorme accovacciato al sole, tra le felci secche. Molti non riescono a vederlo, perché vi si mimetizza come un camaleonte, ma lui c’è, e, nonostante di solito sia buono come il pane e si lasci persino tirare le orecchie dai pargoli più piccoli che si appendono come un campanaro alle corde della sua campana, se gli pesti la coda può rivelarsi particolarmente cattivo.
Il cane alza la testa per guardarla, con un interrogativo nei suo occhi liquidi. Di solito Francesca non gli lesina mai una carezza quando passa di lì, ma stavolta non si è fermata.
E’ in ritardo e lo sa. L’orologio della chiesa sta quasi per battere le nove, ma lei ancora non è arrivata. Francesca durante la settimana studia a Napoli, ma la domenica torna a casa. Si tratta di un giorno molto importante, perché è l’unico in cui finalmente si può mangiare tutti insieme. Francesca di solito prende il treno prestissimo per poter arrivare in orario, ma dopo il treno c’è il tragitto in autobus, poi deve farsi ancora una mezz’ora buona di cammino perché la fermata si trova in fondo alla strada… quel giorno però l’autobus ha fatto ritardo, e lei deve riuscire a trasformare la mezz’ora in dieci minuti. Arriva trafelata mentre l’orologio sta ancora battendo le nove. Le sorelline sono già allineate in cortile come un plotone in attesa di cominciare la battaglia. Elisa le lancia un’occhiata di rimprovero. Ma quello che importa è che sia arrivata in tempo. In quello stesso momento infatti la nonna sta scendendo dalla strada che conduce al mulino con il sacco della saraolla che ha portato a macinare. Tutti al paese le dicono sempre che è una cosa antiquata, che la farina di semola la può sostituire benissimo e inoltre è più comoda perché si può comprare già pronta al supermercato, ma la nonna ci tiene che per il pranzo della domenica si utilizzi farina di saraolla appena macinata. La domenica infatti è il giorno della pasta fatta in casa, dei cicatielli, e per questa occasione tutta la famiglia, dai più anziani ai più giovani, vengono riuniti. Ognuno ha il suo compito, nessuno sta con le mani in mano. La nonna posa il sacco a terra. E’ il segnale, tutti prendono posizione.
La prima cosa da fare è setacciare la farina in modo che non si formino grumi nell’impasto. Le addette al setaccio sono le più piccole, che si divertono un mondo ad eseguire questo compito, utilizzando un setaccio più grande di loro, simile a quello che si vede ormai solo nei libri di fiabe (chissà, forse pensano che anche loro da grandi, proprio come le principesse del libro, indosseranno bei vestiti e vivranno in castelli di pietra in attesa del loro principe); bisogna poi formare un monticello con la farina setacciata e farci un buco in mezzo “come il Vesuvio” spiega la nonna alle incaricate speciali, frugolette di sei-sette anni, che ficcano con gioia le dita nell’ammasso cedevole di farina e si occupano anche di versarvi sopra dell’acqua tiepida (pian piano però, perché l’acqua deve restare dentro il buco e non uscire fuori ). Bisogna poi “rimboccare” la farina, cioè mescolarla con l’acqua proprio come se si stesse rimboccando una coperta. Si aggiunge altra acqua, finché l’ammasso non raggiunge una giusta consistenza. L’impasto deve essere elastico “come il lobo di un orecchio” dice la nonna (con il risultato che tutti i bambini se lo toccano, sporcandosi immancabilmente la faccia e i capelli di farina) e non appiccicarsi alle dita. Rimboccare è compito esclusivo della nonna e della più grandi, cioè di lei ed Elisa. Dopo aver mescolato bene, si formano dei salsicciotti lunghi e sottili (cingoli) da dividere in pezzetti piccoli, che devono essere “cicati” (accecati, cioè resi cavi) con due o tre dita. A questa operazione può partecipare chiunque, indistintamente dal sesso o dall’età: c’è da prepararne tanti, perché tutti devono mangiare
Mentre lavorano, la nonna racconta come questa pasta sia nata dal desiderio di una femmena di vendicarsi del marito traditore. Dopo aver sfogato la sua rabbia “accecando” la pasta (come avrebbe voluto fare con il marito, probabilmente), questa signora aveva cucinato un sugo talmente buono che il marito fellone era tornato da lei “con la coda tra le gambe”(mentre dice questo c’è Pastore che la guarda con sospetto, pensando che si parli di lui).
Ecco la mamma che arriva con un fagotto umido avvolto in un panno, che tiene tra le braccia dolcemente, come un bambino. E’ il criscito, la pasta madre (“Naturalmente si chiama così perché è lei che se ne incarica” pensa Elisa) che serve a far lievitare il pane. Dopo aver aggiunto altra acqua e farina, si lascia “dormire” l’impasto per qualche ora e poi si cuoce nel forno di pietra già scaldato ben bene dal fuoco. E’ un fuoco buono e forte, fatto di rami secchi e maturi. Il papà, previdente, ne ha preparati due fin dal mattino presto, uno nel forno, l’altro in mezzo al cortile, dove sta bollendo il pentolone di acqua salata che presto accoglierà la pasta. Le bambine stanno a guardare con occhi spalancati il calderone contenente il filtro che trasformerà magicamente l’acqua e la farina in cicatielli. Ma non c’è tempo da perdere, bisogna apparecchiare la lunga tavola di legno! Quando tutto è pronto, finalmente ci si siede, ognuno al posto destinatogli (i nonni a capotavola e i nipoti più giovani accanto a loro).
Da mangiare ci sono i cicatielli, che vengono pescati con la schiumarola direttamente dal pentolone e serviti belli caldi (e ancora leggermente umidi) inondati di pomodoro fresco. Segue come secondo il coniglio (cuccio) ripieno. Il tutto è accompagnato da pane appena sfornato (per pulire ben bene i piatti) e vino in abbondanza. Il vino lo hanno preparato l’anno passato, verso la fine dell’estate, pestando l’uva con i piedi. Il mosto ha riposato per molto tempo nelle grandi botti di legno.
“E’ il legno che dà al nostro vino il suo sapore speciale” dice sempre il nonno, orgoglioso. Ma da che albero si ricavi questo legno, non lo vuole mai rivelare. E’ un vino dolce e generoso, un po’ troppo forte forse. La mamma si oppone sempre al fatto che i suoi figli bevano il vino, ma la nonna dice che è la loro ricompensa per aver lavorato tanto, e che un po’ di vino rosso fa crescere sani e robusti. Allora per non scontentare nessuno si dà un dito di vino a tutti, anche ai più piccolini, con quattro dita d’acqua, così si illudono di essere diventati grandi anche loro. Per finire, come dolce, c’è la pastiera di riso della mamma.
Tutto ciò viene mangiato tra l’allegro cicaleccio dei piccini, che raccontano le loro scoperte di quel giorno (la gallina che ha deposto le uova in un luogo segreto, il formicaio che è spuntato all’improvviso, la colonia di coccinelle), il borbottio del nonno (brontola sempre su chiunque e qualunque cosa, ma in fondo è buono e contento di essere circondato da “un’allegra nidiata”) e le chiacchiere delle donne, che parlano fondamentalmente di tre cose: vestiti, cura della casa e dei figli. Francesca ed Elisa si trovano in una posizione “intermedia”, nel senso che non sono più così piccole da interessarsi ai discorsi delle bambine, ma neppure così adulte da poter parlare con le signore. Alla fine però a loro non importa, perché sono abbastanza impegnate a badare che i frugoli non cadano dal seggiolone, a pulire mani e visi sporchi, a salvare bicchieri di vetro da una morte certa e altre amenità del genere. Tutto ciò con tre pargoli in braccio e altrettanti che pretendono di arrampicarvisi. Quelli un po’ più grandi allungano di nascosto sotto la lunga tovaglia ossa non ancora spolpate ai gatti della casa che li guardano con occhi gialli e supplichevoli (ma zitti mi raccomando! E attenzione alla nonna, che non guardi da questa parte!) mentre Pastore osserva la scena con aria dignitosa e sprezzante, quasi a voler dire che lui non si abbassa fare certe cose.
“Di certo non è un pranzo noioso” pensa Francesca. Non vi rinuncerebbe per niente al mondo